E’ tutta colpa del Po.
La nebbia, la pioggia, le foglie marce, l’acqua minacciosa, la notte che certe volte sembra che non vada mai via.
E’ tutta colpa del Po.
Unghie curatissime e dita delle mani e dei piedi sottili e nodose, sensualissime, ma che belle tette, specie alla sua età, certo sono un po’ scivolate verso il basso, ma sotto sono ancora delle morbidissime sfere intarsiate di carnosi capezzoli dritti come le valvole delle ruote delle biciclette e poi quella pelle piena di efelidi e le rughe, che ci sono eh, ma lavorano poco, perché la Signora è magra, si tiene bene, ha il pube appena peloso, se lo regola, ha lo smalto perlato sulle unghie dei piedi e sa fare delle curatissime seghe tra il doloroso e il piacevole e io apro le gambe, come un cane che dona la sottomissione al padrone e agevolo l’esplorazione gemendo come la troia sozza che sono.
E’ colpa del Po.
Ci fa diventare maiali, insaziabili, irrequieti, sempre alla ricerca di una nicchia nella nebbia, una nicchia che ci doni il calore del proibito, del piacere vietato, che ci lasci esprimere al pari di quanto faremmo ai Caraibi, o alle Bahamas, o dove il vietato è consentito.
Per poi rimpiangere la guazza del Po bastardo e sublime.
“Ma tu eri porca così anche a scuola?” le chiedo ansimando, mentre lei giace elegante al mio fianco, lavorando di unghie il buco del cazzo, strizzandomi forte i coglioni, graffiandomi il perineo ora forte, ora lieve, scivolando esperta ne buco del culo, per poi uscirne e tornare a pistonare la mia Mazza Imperiale, che non tirava così per una sega da secoli e lei ride armoniosa e femminile e mi chiede inutilmente di rimando “A scuola?” – “Sì a scuola.” e godo spalancando, offrendo, cane sottomesso, mentre lei pensa e poi dice “Beh, da metà del liceo in poi forse sì, ma ero porca come può esserlo una ragazzina, cioè, insomma, mi davo da fare nel mio…” e ride lavorandomi la cappella, dolorosamente e poi piacevolmente, Signora che fa cose che gli umani adolescenti non hanno visto mai.
Il Po, dicevamo.
Acqua eterna e maestosa, favola bella, a volte mostruosa, con quelle creature straniere che lo popolano e devastano tutto, i siluri, che la navigazione è anche diventata un’arte superiore a quella di evitar le secche e i banchi.
I banchi di scuola, dove mi piace pensare alle mani della Signora che frugano vogliose tra le gambe di maschi ormonoidi che sbuffano sperma masticando sgrammaticati il Titolo Maximo di Grtantroia, ma lei ride e dice nooo, mai fatta na roba così, ma se oggi ci tornassi, oggi sì, ma c’ho sessant’anni quest’anno, amore mio.
Amore mio.
Amore mio detto con amore placido, non pericoloso, non come fosse un guscio delcato e delizioso che cela al suo interno serpi nere pronte ad uccidere quel poco di me che rimane.
Amore mio e mi succhia i capezzoli e li lecca sfarfallando la lingua e poi la passa sulla cicatrice che, messa proprio lì in mezzo, lascia intuire che il mio cuore non regge non solo l’amore, ma forse anche la vita.
Amore placido, che scorre caldo sul gelo della vita, come il fiume che in primavera si sveglia a dà un gran da fare a chi deve capire, mappare, segnare, le battaglie sotterranee di sabbia e detriti che anche quell’inverno, come tutti gli inverni a cui Egli è sopravvissuto, hanno causato.
Placido tepore umido della fica che si schiude e lascia entrare lentamente quel cazzo reso bruciante e dolorante dalle dita creative della Signora. Era forse troppo presto arrivare a questo la prima sera?, chiedo infantile e coglione come di consuetudine e lei sorride soave, con quella bocca da Ava Gardner e mi scompiglia i capelli aprendo le gambe di più, aprendo gli occhi antichi e bellissimi tinti di verde e sussurra un “no” sorridente, senza suoni e io mi immergo nella sua carne, entro in lei, percorro sacrale quel tunnel che ha visto uscire due vite e raggiungo il fondo, dove tutte mugolano di dolore e lei chiude gli occhi aspirando aria tra i denti e io piano piano la faccio godere come dev’essere, com’è giusto, com’è sacra la gratitudine che provo nell’essere ammesso al suo interno e mi fondo nel suo sudore inodore, nella sua mollezza soave, nel suo fiato bollente.
Quante volte ho osservato il Po scorrere, senza mai pormi il quesito di dov’è che andasse quell’acqua sempre nuova e sempre antica. Fortuna che non l’ho fatto, che già lo fece con filosofia immortale chi di cultura vera ne sapeva.
Il Po scorre, la vita anche. E dove cazzo vadano e perché nessuno lo può sapere. In mare, nella tomba. Ma sì. Meglio una cosa semplice che mille inutili supposizioni.
Abbordata al Flamingo nella sera del tango, come fosse una qualsiasi sozza che usa il ballo per prendere il cazzo e invece no, m’ha messo alla sbarra da subito, senza smettere mai di sorridere ed io ho dovuto chiamare a raccolta il cervello per sostenere le piccole prove che (per fortuna!) ho intuito mi stesse ponendo davanti e poi ho passato l’esame e fu lingua e saliva e respiri e poi “andiamo a bere da me?” – “Sì” e ogni suo sì è un sottile sigillo, una elegante bolla pontificia che si sente, si avverte, si respira che non è concessione per tutti.
Un pendolo penzola sulle rive del Po.
Si chiama Tazio ed è un fallito totale, pendolare tra il capoluogo di provincia taziale dove una giovane avvocatessa civilista sfodera le sue doti di suzione, invero lodevoli, spesso irresistibili, sempre sonore e umide di saliva sputata e rigurgitata, come il dio porno impone alle giovini che si approccino al cimento del pompino imperiale, pratica ricalcata dall’online a luci rosse, perché a me, che c’ho ‘sto cazzo da sempre, nessuna m’ha mai fatto il porcaio di saliva, rutti, bestemmie e sciacqui, risciacqui e centrifughe che oggi è d’obbligo fare, per fregiarsi nella deep reality del titolo di Pompinara.
La signora spinge il bacino verso il mio, torturandomi lieve i capezzoli duri come i suoi, sorride e ansima, sudando imperlata e muta, parlando col corpo, la lingua il sapore e l’odore, mentre il pendolo mi spinge verso l’avvocatura che bestemmia nell’incitarmi a cose impossibili “spaccami la figa porcodio”, specie valutando che quella figa è palesemente indistruttibile, dato che di cazzi ne ha presi più che a mazzetti, come a mazzetti erano le margheritinee che si coglievano sulle rive del minaccioso Po in primavera.
Minaccioso, maestoso e placido.
Come la Margherita che colgo fortunato, avvolto dal mistero di lei, conosciuta cinque ore fa al Flamingo e che, senza aver fatto nulla che non fosse Tazio, mi gratifica di un placido Amore Mio che nella sua non verità, mi affascina come il Po.
E tant'è.
Purissima poesia!
RispondiEliminaBisognerebbe prostrarsi in religioso silenzio di fronte a questa prestazione sublime (quella letteraria).
RispondiEliminaProstrarsi o prostatarsi?
Boh, tutti e due magari.
attenzione a prostrarsi che questo Tazio 3.0 lo infila dappertutto...
Eliminapreferisco piuttosto scappellarmi di fronte alla prestazione letteraria, invero poetica.