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venerdì 10 febbraio 2017

Corrosione


In una anziana casa avvolta dall’abbraccio di rami nudi che occhieggiano dai vetri delle finestre, Margherita è nuda su una poltrona ed io, altrettanto nudo, giaccio inginocchiato tra le sue accoglienti gambe aperte, baciandole i radi e biondicci peli del pube.
MI sorride appena, il capo appoggiato alla mano destra, carezzandomi i capelli con la sinistra.

Ha i capezzoli scuri e induriti dal freddo e dalla situazione, lunghi e ruvidi cazzetti carnosi di cui si intravedono i fori a croce, ed ha anche un accenno di pelle d’oca lungo l’esterno delle cosce morbide.
Mi prostro a leccarle il sesso caldo e carnoso, devoto e sottomesso come un suo schiavo.
Godo dentro, quando sortisco un respiro pesante di piacere.
Come uno schiavo.

E’ delizioso passare da una situazione di carnefice che fotte violentemente la sua scrofa nel capoluogo di provincia taziale, alla situazione di sottomesso volontario che insinua nella sua Dama Erotica possibili scenari di rapporti “particolari” con me.
E io agisco lento, quasi fermo, lasciando che gli eventi ruotino, si avvolgano, si srotolino e sviluppino nuove pieghe lungo le quali muovermi impercettibile.

E accumulo tensione interiore, desiderio di sporcizia morale.
Che poi sfogo nel martoriato ano della mia ZingaraMiettaGipsyQueen.
Con cui parlo del desiderio di allargarla al punto di vederle penzolare il retto fuori dal culo, come se fosse la coda di un cane, di Bukowskiana memoria.
Lei mi bestemmia in faccia che col cazzo che si arriverà mai a tanto ed io le sottolineo che è proprio col cazzo che si arriverà a tanto, ma poi mi annoio.
Mortalmente.

E corro dalla mia Dama Erotica, Margherita, per inginocchiarmi a toglierle i collant, ancora seduti a tavola, dopo cena, per succhiarle le dita dei piedi, salivosamente e  lentamente, mentre lei con pacata voce sensuale mi racconta e si confessa del suo passato normale, fumando Diana rosse, dall’odore acre e pesante, puzzo che adoro.

Lei non mi giudica.
Le sto sgocciolando a rate, come fossi una lurida leccarda zeppa di olio rancido, tutte le mie porcate più infami commesse nella mia buffa esistenza e lei mi sorride, accarezzandomi il viso, rassicurandomi sul fatto che non ho ucciso nessuno e che chi era con me era consenziente.
E io mi spingo tra le sue gambe, scosto le mutande bianche e le lecco il sesso.

Lecco il sesso”.
Adoro scriverlo. Così formale e osceno, così sensuale e appagante, così assente di tempo, che passa senza segni mentre succhio quelle labbra carnose e cerco il clitoride pronunciato che tento di spompinare, avvertendo tra le labbra la sua forma di protocazzo fatto di protoglande e protoprepuzio.

E Margherita gode. Gode ad essere leccata. E’ una cosa che adora visceralmente, lo capisco anche senza che me lo dica. Gode a venirmi in bocca mentre fuma le sue fetide Diana, totalmente vestita, solo con le gambe nude e il sesso scoperto.
Viene sussultando e sorridendo, stringendomi per i capelli e tirandoli dolorosamente, inarcando la schiena e reclinando il capo all’indietro.

E, meravigliosamente, non si catapulta a restituirmi il favore, non si getta in esasperati ed esasperanti stanchi pompini eseguiti come da pornoprotocollo. Ed è così rilassante ritornare a sedere col cazzo di marmo nei pantaloni, per ricominciare a parlare, pacatamente, placidamente, sapendo che prima o poi anche io verrò, ma solo quando le andrà veramente di farmi venire.

E se io uscissi con un altro uomo ti darebbe fastidio, Tazio?”
“Da impazzire” – rispondo io senza nemmeno sapere quel che sto dicendo.
“Oh, tesoro vieni qui” – mi sorride di splendidi denti per abbracciarmi e baciarmi.

Senza rassicurarmi che non lo farà mai.
Senza assicurarmi che non lo farà mai.

Placidamente e corrosivamente.
Com’è giusto che, finalmente, sia.



 

martedì 7 febbraio 2017

La Margherita e il Po



E’ tutta colpa del Po.
La nebbia, la pioggia, le foglie marce, l’acqua minacciosa, la notte che certe volte sembra che non vada mai via.
E’ tutta colpa del Po.

Unghie curatissime e dita delle mani e dei piedi sottili e nodose, sensualissime, ma che belle tette, specie alla sua età, certo sono un po’ scivolate verso il basso, ma sotto sono ancora delle morbidissime sfere intarsiate di carnosi capezzoli dritti come le valvole delle ruote delle biciclette e poi quella pelle piena di efelidi e le rughe, che ci sono eh, ma lavorano poco, perché la Signora è magra, si tiene bene, ha il pube appena peloso, se lo regola, ha lo smalto perlato sulle unghie dei piedi e sa fare delle curatissime seghe tra il doloroso e il piacevole e io apro le gambe, come un cane che dona la sottomissione al padrone e agevolo l’esplorazione gemendo come la troia sozza che sono.

E’ colpa del Po.
Ci fa diventare maiali, insaziabili, irrequieti, sempre alla ricerca di una nicchia nella nebbia, una nicchia che ci doni il calore del proibito, del piacere vietato, che ci lasci esprimere al pari di quanto faremmo ai Caraibi, o alle Bahamas, o dove il vietato è consentito.
Per poi rimpiangere la guazza del Po bastardo e sublime.

“Ma tu eri porca così anche a scuola?” le chiedo ansimando, mentre lei giace elegante al mio fianco, lavorando di unghie il buco del cazzo, strizzandomi forte i coglioni, graffiandomi il perineo ora forte, ora lieve, scivolando esperta ne buco del culo, per poi uscirne e tornare a pistonare la mia Mazza Imperiale, che non tirava così per una sega da secoli e lei ride armoniosa e femminile e mi chiede inutilmente di rimando “A scuola?” – “Sì a scuola.” e godo spalancando, offrendo, cane sottomesso, mentre lei pensa e poi dice “Beh, da metà del liceo in poi forse sì, ma ero porca come può esserlo una ragazzina, cioè, insomma, mi davo da fare nel mio…” e ride lavorandomi la cappella, dolorosamente e poi piacevolmente, Signora che fa cose che gli umani adolescenti non hanno visto mai.

Il Po, dicevamo.
Acqua eterna e maestosa, favola bella, a volte mostruosa, con quelle creature straniere che lo popolano e devastano tutto, i siluri, che la navigazione è anche diventata un’arte superiore a quella di evitar le secche e i banchi.



I banchi di scuola, dove mi piace pensare alle mani della Signora che frugano vogliose tra le gambe di maschi ormonoidi che sbuffano sperma masticando sgrammaticati il Titolo Maximo di Grtantroia, ma lei ride e dice nooo, mai fatta na roba così, ma se oggi ci tornassi, oggi sì, ma c’ho sessant’anni quest’anno, amore mio.
Amore mio.

Amore mio detto con amore placido, non pericoloso, non come fosse un guscio delcato e delizioso che cela al suo interno serpi nere pronte ad uccidere quel poco di me che rimane.
Amore mio e mi succhia i capezzoli e li lecca sfarfallando la lingua e poi la passa sulla cicatrice che, messa proprio lì in mezzo, lascia intuire che il mio cuore non regge non solo l’amore, ma forse anche la vita.

Amore placido, che scorre caldo sul gelo della vita, come il fiume che in primavera si sveglia a dà un gran da fare a chi deve capire, mappare, segnare, le battaglie sotterranee di sabbia e detriti che anche quell’inverno, come tutti gli inverni a cui Egli è sopravvissuto, hanno causato.

Placido tepore umido della fica che si schiude e lascia entrare lentamente quel cazzo reso bruciante e dolorante dalle dita creative della Signora. Era forse troppo presto arrivare a questo la prima sera?, chiedo infantile e coglione come di consuetudine e lei sorride soave, con quella bocca da Ava Gardner e mi scompiglia i capelli aprendo le gambe di più, aprendo gli occhi antichi e bellissimi tinti di verde e sussurra un “no” sorridente, senza suoni e io mi immergo nella sua carne, entro in lei, percorro sacrale quel tunnel che ha visto uscire due vite e raggiungo il fondo, dove tutte mugolano di dolore e lei chiude gli occhi aspirando aria tra i denti e io piano piano la faccio godere come dev’essere, com’è giusto, com’è sacra la gratitudine che provo nell’essere ammesso al suo interno e mi fondo nel suo sudore inodore, nella sua mollezza soave, nel suo fiato bollente.

Quante volte ho osservato il Po scorrere, senza mai pormi il quesito di dov’è che andasse quell’acqua sempre nuova e sempre antica. Fortuna che non l’ho fatto, che già lo fece con filosofia immortale chi di cultura vera ne sapeva.
Il Po scorre, la vita anche. E dove cazzo vadano e perché nessuno lo può sapere. In mare, nella tomba. Ma sì. Meglio una cosa semplice che mille inutili supposizioni.

Abbordata al Flamingo nella sera del tango, come fosse una qualsiasi sozza che usa il ballo per prendere il cazzo e invece no, m’ha messo alla sbarra da subito, senza smettere mai di sorridere ed io ho dovuto chiamare a raccolta il cervello per sostenere le piccole prove che (per fortuna!) ho intuito mi stesse ponendo davanti e poi ho passato l’esame e fu lingua e saliva e respiri e poi “andiamo a bere da me?” – “Sì” e ogni suo sì è un sottile sigillo, una elegante bolla pontificia che si sente, si avverte, si respira che non è concessione per tutti.



Un pendolo penzola sulle rive del Po.
Si chiama Tazio ed è un fallito totale, pendolare tra il capoluogo di provincia taziale dove una giovane avvocatessa civilista sfodera le sue doti di suzione, invero lodevoli, spesso irresistibili, sempre sonore e umide di saliva sputata e rigurgitata, come il dio porno impone alle giovini che si approccino al cimento del pompino imperiale, pratica ricalcata dall’online a luci rosse, perché a me, che c’ho ‘sto cazzo da sempre, nessuna m’ha mai fatto il porcaio di saliva, rutti, bestemmie e sciacqui, risciacqui e centrifughe che oggi è d’obbligo fare, per fregiarsi nella deep reality del titolo di Pompinara.

La signora spinge il bacino verso il mio, torturandomi lieve i capezzoli duri come i suoi, sorride e ansima, sudando imperlata e muta, parlando col corpo, la lingua il sapore e l’odore, mentre il pendolo mi spinge verso l’avvocatura che bestemmia nell’incitarmi a cose impossibili “spaccami la figa porcodio”, specie valutando che quella figa è palesemente indistruttibile, dato che di cazzi ne ha presi più che a mazzetti, come a mazzetti erano le margheritinee che si coglievano sulle rive del minaccioso Po in primavera.

Minaccioso, maestoso e placido.
Come la Margherita che colgo fortunato, avvolto dal mistero di lei, conosciuta cinque ore fa al Flamingo e che, senza aver fatto nulla che non fosse Tazio, mi gratifica di un placido Amore Mio che nella sua non verità, mi affascina come il Po.

E tant'è.