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sabato 10 marzo 2012

Saturday night liver


Un po’ alla volta smonta, meglio. Certo non posso guidare, altrimenti mi danno la sedia elettrica.
Vorrà dire che andrò a mangiare un boccone al wine bar e poi da lì si vede.
Capace anche che me ne torno a casa appena ho cenato eh. Non me ne frega un cazzo.
Così come non me ne frega un cazzo delle moralette dei miei coglioni rugosi che tenta di propinarmi qualche sbarbata, sbandata almeno quanto me, che non sa resistere alla tentazione di guardare le pagliuzze negli occhi altrui, ignorando le travi nei propri. Autopsicoterapia motivazionale?
Non me ne frega un cazzo, sorry.
Certo è che a me le moralette dalle sbarbate che mi giudicano vuoto dall’alto della loro futura esperienza, mi fanno venire il marchese. Lo ribadisco con viva e vibrrrrante determinazione.
Detto ciò, ed assodato che chi doveva capire ha capito, nel ricordare a tutti che non me ne frega comunque un cazzo, mando baci come Wanda Osiris e auguro uno spettacolare sabato sera.
A tutti, ma proprio a tutti.
Perché il Tazio è democratico e vuole bene a tutti.
Maestrine e discoli.

Traslitterazioni iconografiche


Siedo al Centrale e penso alla Dea Walchiria dai Nudi Piedi e all’apertura della stagione, pur conscio che una rondine non fa primavera e che mai dire gatto se non ce l’hai nel sacco.
Metto in fila e applico la regola. Mi mancano i piedi di tutte. Della Betta Bettina, la cui forma e solidità mi ricorda Geppi Cucciari. Della Giogia, signorili e diafani. Della Greta, potenzialmente belli e lesbicamente trascurati. Della Lurida Labarista, plastici e perfetti. Della Ade, sensuali e provocanti.
Traslittero. Visualizzo. Simulo. Modello.
Poi mi giro.
Cerco a terra, sotto i tavolini, con lo sguardo maniaco celato dalle lenti oscurate.
E trovo un tallone scalzo che fa capolino da una ballerina.
Sono tra noi.
Era ora.

Speranza


Mi interrogo su chi sia il pervertito depravato che ha introdotto sul mercato il kamut.
Il kamut. Ma chi cazzo lo ha mai sentito nominare, nei precedenti millenni, il kamut? I sumeri? Gli Ittiti? I Katzuti? Eppure la matrona vintage che mi stabula accanto, lungo la corsia della pasta, impartisce ordini alla figlia. Perentori ordini a fastidiosa voce alta.
“Prendi quella al kamut. Quella al kamut. Sai? Eleonora? Hai capito?” – “Sì mamma cazzo”.
Coraggio Eleonora, più tardi potrai drogarti, che è sabato, e di questa fazenda del kamut non ti rimarrà nulla.
Io, però, sono esterrefatto. Questo mammifero anziano, di grossa mole, si alimenta di kamut.
Ed è in tensione, perché se la giovane rampolla non procurerà la pasta al kamut, ella perirà.
Spirito di conservazione della specie.
Delle specie. Le specie di kamutivori.

Svolto la corsia, manca l’aceto.
Prima di giungere allo scaffale delle bottiglie di aceto bianco Ponti vengo assalito da un dubbio: mica esisterà l’aceto al kamut vero? No, per fortuna non esiste. Solo aceto di vino, di vinaccio vigliacco, ignorante, come piace a me.

Svolto corsia, manca il caffè solubile.
E lì il botto.
Poco più di trent’anni, fisico da pallavolista, altissima, la faccia da ragazza che ha studiato, il fisico della ragazza che fa sport, l’insieme che indica che fa un mestiere business, bella dietro quegli occhiali da intellettuale, raffinata anche se paludata da jogger del sabato che corre al supermercato a sbrigare in velocità la spesa, che per lei è una seccatura da maneggiare rapidi, mentre per il popolo è un rito. Una stangona con un bel culo generoso, fasciato dalle consunte braghine della tuta blu. Ma tutto questo non è niente. Perché ciò che è veramente, ciò che la pone nella storia del 2012, è che la walchiria indaffarata ed incurante, ai piedi calza un paio di Birkenstock infradito che le scoprono i grandi piedi nudi, affusolati ed elegantissimi. Unghie curate, niente smalto, chiare quasi come la bianchissima pelle.

Il primo paio di piedi scoperti del 2012! Ma vieni!

Il momento è epocale.
Sono emozionato come uno scolaretto, trascuro la mia spesa e prendo a transitarle pateticamente accanto con pretesti leciti, per quanto io non nutra alcun interesse per le cartine acchiappa colore, dato che vesto di nero e di jeans in maniera compulsiva, ma la lettura delle istruzioni rende ammissibile che io guardi in basso, ipnotizzato da quelle dita nude, da quell’alluce così bello, per il quale sogno sommessamente intimi utilizzi.
Piedi, mio dio, piedi nudi di donna, sono estasiato. State tornando quindi, piccoli amici e compagni di mille scappellate e ciò che si mormora è una realtà allora, e la walchiria è l’avamposto delle truppe scalze che saggia la sostenibilità del denudamento delle sessuali estremità e mi pare che regga alla grande.
Si-può-fare!
Signore tutte! Presto! Qui! Qui! Osservate la Regina 2012, la prima donna scalza dell’anno! Emulatela! Emulatela! Bruciate collant e stupide calze, a rete, di microfibra e dimenticate i fottuti denari, che il denaro non dà la felicità. Al rogo! Presto! Un falò! Danzategli attorno scalze, macchiando di polvere grigia le vostre piante sublimi come in un sabba infernale, che i noci maturi ve li regalo io, streghe del sesso, creature divine.

Poi la walchiria si incanala alla cassa ed io, commosso e malinconico, continuo il mio mesto dovere, planando a mia volta ad una cassa casuale, incontrando lo sguardo lontano della Giuliana che stamani, vestita da supermercato e svestita di sguardi maliardi, mi appare ancor più improbabile di poche ore fa.
Ma bando alle tristezze, oggi è un giorno di festa!
Vorrei avere un servo per dirgli di ammazzare il vitello grasso e imbandire il più suntuoso dei banchetti, perché si può fare, lei l’ha fatto, lo farete tutte, prestissimo.

C’è speranza. Anche qui sul pianeta Pain.

La crudele menzogna


Bella mossa, hai proprio messo a segno il punto con maestria sopraffina, siine fiero, intacca il calcio del tuo fucile, cowboy, che un’altra pellesozza è caduta sotto i tuoi colpi di maglio, che è così che si fa, si studia l’ambiente, si valuta il nemico, si attende il momento e si sferra l’attacco.

Sono andato al Flamingo, senza piano, supponendo, forse sperando.

Ciao Giuliana, stasera indossi il pantalone a sigaretta di cretonne di seta blu petrolio cangiante che poi continua e fascia e diventa un top che ti lascia scoperta la schiena nuda e si annoda sulla nuca, perché di venerdì, sabato e domenica è inutile vestirsi da tupamaros della salsa e del merengue, perché qui al Flamingo arrivano cani e porci e non si riesce a figurare il ballo e allora che senso ha, tanto vale stare comodi con classe, esticazzi, mi dico io, che se non c’era la voglia di classe chissà come mi venivi, torno a dirmi.
Balliamo il lento Giuliana, che ti voglio palpare nella penombra della saletta Clearasil, che speriamo mettano anche Il Tempo delle Mele, che tu mi fai il sospiro e io ti palpo la pelle nuda che me lo fai tirare come se c’avessi due stalloni avelignesi nelle mutande.

…and the moment that you wander far from me
I wanna feel you in my arms again…

Che poi sono stregato eh. Da quel collo del piede nudo che si intarsia di diecimila tendini e vene e precipita giù, come una cascata amazzonica di sesso, scivolando nella punta di quelle elegantissime peeptoe da vertigine di vernice nere, da cui sbuca un quadrante di unghia dell’alluce, smaltata di rosso, che per idiozia ti chiedo se sono Casadei, senza pensare che magari cinquecento euro in un paio di scarpe tu non ce li metti, tu che fai l’eroica commessa nell’epoca spread, e mi pento di averlo chiesto, però si rivela un complimento che apprezzi e dici che noooo,  però sorridi orgogliosa, che ti fa piacere che l’abbia pensato perché allora vuol dire che son belle e un po’ di culo nella vita, porca troia bestia, ci vuole anche a me.

Dio che schiena di carne di mammifera che c’hai Giuliana, che mi guardi con gli occhi pieni di torbida paSione, mentre ti premo sul ventre sensualmente molle la Nerchia Devastatrix in modalità Marble che c’ho una voglia di annusarti la sorca che quasi nemmeno io riesco a crederci e così, memore delle festine, chino la testa dirigendo alla tua bocca, accorciando gli spazi inter labiali, procedendo lento come un mercantile a Suez.

… cause we’re living in a world of fools, breaking us down
when they all should let us be, we belong to you and me…

E le nostre labbra di liceali mummificati si appoggiano le une sulle altre in un fugace bacino che non ne davo di così dal mesozoico e il riflesso condizionato è quello di chiedere subito “Vuoi essere la mia ragazza?”, ma mi trattengo, anche perché la Giuliana, quando tento una seconda irruzione labbraiola mi dissuade sussurrandomi “SteLina no, che qua mi conoSe mezzo mondo che non vedono l’ora di andare a spiateLare in giro che mi son baciata con un bel figone…” e ride, ma io devo capire, perché se sto solo facendomi cementare la minchia senza speranza è meglio che ci salutiamo che vado a farmi insegnare delle filastrocche nigeriane in un centro culturale all’aperto che conosco io, qui vicino. E allora chiedo “E come facciamo?” con la proto delusione dell’adolescente disarmato che fa tanto tenerezza e stimola la mamma a mostrare il suo lato sozzo. “Non ti preoCupare che faCiamo, SteLina, dobbiamo solo aver un pochinino di pazienza” e torno a massaggiare la carne mammifera e ci riaddressiamo in posizione e io palpo.

…to touch you, to hold you
to feel you, to need you…

E mi assale la sindrome del polipo, che la palpo dappertutto e lei si fa palpare, calda, sudatina, e le domande si affannano, c’avrà il perizoma?, il reggiseno non può umanamente avercelo e stringendole le mani dirigo sulle tette, ma lei abbassa sorridendo sozza, poi la situazione non si contiene più e lei mi dice, tecnica, stratega “Lo sai dov’è la chiesa di Sugnazza?” e io rispondo di sì, chi non sa dov’è la chiesa di Sugnazza? “Bene. A-lora faCiamo così: te adesso vai via e tra un’ora ci vediamo là davanti, che così io torno su dalla compagnia, mi faccio due balli e vengo via va bene?”.

E’ incredibile come si possa avere una disinvoltura disinibita quando ci si infila la lingua negli orifizi più privati, quando si ammette uno sconosciuto alla corte dei propri odori e sapori, quando si condivide il sonoro del proprio piacere con qualcuno di ignoto per poi diventare, quando la bestia si accoccola sazia, timidi e impacciati nel cucire una parvenza di dialogo che conferisca un velo di umanità di circostanza a tanto ficcare animale.

La guardo, nuda, stesa di fianco a me. E’ incredibile come quello stato di nudità, così urgentemente agognato per mesi, ora non significhi nulla, divenendo realtà: un corpo segnato dal tempo sul quale sono stati pateticamente impressi simboli di improbabile modernità: la figa depilata, il piercing all’ombelico, il colibrì tatuato sul lombo di destra, giusto sopra il segno più chiaro di un perizoma dozzinale.

Illusione. Ci siamo farciti di illusione, reciprocamente. Lei credeva di aver trovato l’amante focoso che, intriso di passione, l’avrebbe accompagnata per un tratto della sua esistenza sfiorita e cadente e io credevo di aver trovato la laida amante che esprimesse la prova provata che il piacere per il piacere può andare oltre all’età e mantenere vivaci e voraci di vita, immortali. Illusione.

Deludenti l’uno con l’altra. Io non sono intriso di passione, ma solo di sudiciume e lei non è un’amante laida drogata di piacere, ma solo una donna che colma vuoti coi vuoti e che segue il distorto disegno che le suggerisce di svendere sesso senza talento in cambio d’amore menzognero.

Non c’è amore, qui, Giuliana. No. Mi spiace di essere stato frainteso.
Se sono qui, ora, è solo perché volevo vedere le tue dita dei piedi.
E ora le ho viste, per cui andrei.

Buonanotte.

venerdì 9 marzo 2012

Panama e ricordi


Ho bigiato. Non sono andato in ufficio, dopo essere uscito per la pausa pranzo popolata di seppie in umido. Perché è venerdì e si sa, venerdì pesce.
Sono tornato a casa e mi sono spogliato nudo. Ho posizionato la seggiola in mezzo alla porta finestra della cucina, vi ho steso sopra una morbida spugna recante la scritta Bacardi su fondo nero, mi sono rollato una canna, mi sono versato un whiskytiello di arboriana memoria, ho indossato gli occhiali da sole e, con un Mario Biondi grugnente di sottofondo ho lasciato che il sole mi baciasse il cazzo e i coglioni.

E ho spento il telefono. Tac. Scomparso. Possono pure venire a suonare, non aprirò.
La canna sale garbata, il whiskytiello ammorbidisce garbato, il solicello bacia garbato.
Ci vuole garbo, ci vuole.
Ecco, con garbo.
Mi dissolvo nei chiaro scuri con garbo e non darò traccia di me.


***
Panama. Isla Mamey, Provencia de Colon, Caribbean Sea.


Time-lapse


Un attimo e ti vedo lì, un attimo e sei seduta qui, un attimo e giungo a conoscenza delle tue più intime realtà e tu delle mie. Luce bassa, ex ufficio di un magazzino vuoto e spettrale, brandina deprimente. Ti accarezzo il culo mentre me lo succhi, tanto tu lo sai che io sarò passivo e toccherò solo quello che accelererà la mia conclusione.
Non sei un granché il mio tipo, ma c’eri tu e avevo sonno.
Chiudo gli occhi e penso ai piedi della danzatrice, sogno di leccarglieli.
E schizzo nella gomma che riveste il mio cazzo serrato tra le tue labbra.
Un attimo e sei di nuovo seduta lì, un attimo e ti riporto là, un attimo e non esisti più.
Sette attimi veloci ed il cerchio è chiuso.
Alla fine, non è esattamente questo ciò che ho sempre avuto da tutte?
Perfezione minimalista del time-lapse.

Venerdì


Bonjour.
Cinque virgola cinque gradi, la primavera è in arrivo, niente da dire, ma anche niente da farsene.
Ieri sera bella serata, bell’ombelico seducente la danzatrice, piedi non male, mi è piaciuta. Anche la tartare mi è piaciuta. Sono stato soddisfatto sia della carne cruda viva che della carne cruda morta.
A un certo punto ho capito che avrei potuto farmi avanti con la danzatrice. Diversi gli sguardi, copiosi i sorrisi ex ante ed ex post danza. A un certo punto di una pausa stava là, al banco, scalza. Indugiava e guardava verso di me. A un certo punto ho detto mi alzo e vado a complimentarmi. A un certo punto mi sono chiesto che cazzo me ne frega. A un certo punto, mentre ballava, le ho fatto ciao con la manina e sono andato a pagare e me ne sono andato. E ho dato risposta alla domanda di che cazzo me ne frega: non me ne frega un cazzo.
Che bella attività l'introspezione.
Bonjour e buon ultimo giorno lavorativo della settimana.

giovedì 8 marzo 2012

Soddisfattissimo


Fine della giornata. Ah che meraviglia, sono soddisfattissimo. Soddisfatto di aver dimostrato agli adulti più grandi di me che Tazio, se vuole, in dieci minuti sa cambiare le cose. Eh sì. Sono soddisfatto che la mia pseudo famiglia di pseudo amici abbia potuto apprezzare le mie doti di sintesi asciutta e anche la capacità di fare riferimenti sacri e zoologici nel medesimo periodo, che non è cosa da tutti eh.
Sono soddisfatto che la Ade sia partita per l’aeroporto senza aver bevuto alcolici, che la sicurezza innanzitutto eh. Sono soddisfatto di aver cacciato una rompicoglioni che infestava questo blog, facendola rintanare nel suo, che ora non è nemmeno più visibile poiché l’ha chiuso a chiave per paura delle verità di Tazio e adesso passano solo i suoi pseudo amici, così li potrà infarcire di balle senza contraddittorio. Sono soddisfatto di aver sottolineato con garbo e signorilità a qualcun altro che non sono proprio coglione coglione da non accorgermi di niente e che so leggere e fare confronti. Se l’ha capita bueno, altrimenti la capirà meglio, garantito come la morte. Sono soddisfatto d’aver dissertato di piedi con un’amica, una stimata collega feticista che piange anche coi lacrimogeni e questo è un bene. Spero le puzzino anche i piedi, perché questo è un altro grossissimo bene. Sono soddisfatto. Molto soddisfatto. Estremamente soddisfatto.

Ho voglia di carne cruda e anche parecchia, ho fame.
C’è un locale dimmerda che fa la tartare e il giovedì ha anche la danzatrice del ventre. Roba di classe.
Il che significa piedi nudi e, dopo l’appetizer di oggi, qualcosa in questo senso non mi spiace.
E se mi arraperà a dovere, una troia digestiva non me la farò mancare.
D’altra parte me lo merito.
Ed in ogni caso, non me ne frega un cazzo.

Non posso


Breve sintesi asciutta dei fatti asciutti: alle 18 mi telefona la Ade per dirmi che stasera alle 21 ha il volo per il Lussemburgo e mi chiede se mi va un aperitivo verso le 19 che poi lei parte.
Le dico di no, che non posso.
Perché io veramente non posso.
Non posso più perdere tempo.
Non ne posso più di perdere tempo.
Non me ne frega un cazzo.