Cosa cambia, mi chiedo, se ciò che mi mormori lurida è vero oppure no?
Cosa cambia se il quarantenne maiale sulla spiaggia nudista non è mai esistito?
Cosa cambia se non sei mai andata a scuola senza mutande? Cambia forse
qualcosa? No, non cambia nulla, assolutamente nulla e ti guardo mentre mi
spoglio senza dire una sillaba e mi guardi e ti contorci sul divano come una
piccola serpe affascinante spogliandoti anche tu, furiosa, con gli occhi fin lividi
dalla voglia, fiera di farmi bollire il sangue quasi al limite del controllo e
ci spogliamo, io in piedi, tu seduta e mi guardi il cazzo duro da far male, scuro
da quanto sangue gli hai fatto pompare dentro con le tue sussurrate lordure da
troia suprema, che se son vere sarai il mio delirio, ma se sono inventate è
quasi anche meglio, perché significherebbe che hai una sensibilità sibaritica
nel leggermi e darmi il combustibile che bramo, per poi diventare il comburente
che fa esplodere la bestia che fatico a tenere al guinzaglio e tu, in entrambe le
opzioni, stai facendo di tutto perché le maglie del guinzaglio si spezzino e
giochi, giochi pesante, con un sorriso laido, mi bombardi di stimoli, mi dai
frammenti perfetti, infilati come perle in una collana, uno dietro l’altro ed
allora appena sei nuda ti tormenti la figa esibendomela a gambe spalancate e io
non sbatto nemmeno le palpebre e ti guardo, ti guardo mentre sollevi con ambo
le mani il tuo piede sinistro e porti le dita a schiacciarsi sul naso e inspiri
rumorosa ed espiri guardandomi con gli occhi bolliti di lussuria ed emetti un
sussurrato “ahhh” e inspiri di nuovo,
ancora e ancora e ancora e dopo avermi sussurrato “voglio impazzire stasera” tiri fuori tutta la lingua che hai
scorrendola lenta sulla pianta, guardandomi, succhiandoti le dita in posizione
acrobatica, controllando in continuo a che punto di pressione arteriosa stai
portando il mio sistema circolatorio e io conto fino a cento e ti guardo, che
così non t’avevo mai vista, ma nemmeno sospettata, nemmeno un istante, mai,
mai.
Ti vengo vicino senza dire una sillaba, lento, brandendo il cazzo duro
da lacerarsi e mi guardi con gli occhi sporchi, arretrando sul divano,
sorridendo, dicendomi “Hai voglia di
farmi tanto male, vero Taz? Mi vuoi fare tanto male? Fammelo…” ed è
inevitabile, persino se usassi dei farmaci, persino in quel caso non
riusciresti a fermarmi perché mi hai trascinato oltre il muro, nel buio dei
cespugli ed ora io sono qua, che ti spalanco le gambe sollevandotele per le
caviglie e, senza mani, senza cura, senza pietà, ti conficco la verga di marmo
nel buco inzaccherato della fica e ti fotto. E tu urli quando entro diretto e
poi ti lecchi le labbra e sorridi scomposta, mentre sbatto i coglioni sul tuo
buco del culo e aumento la velocità e tu piangi piacere e soffi aria dalle
labbra, con gli occhi piangenti, con quello sbruffo infantile, aspirando e
soffiando, mugolando acuta ed ora inizio a parlare io e ti chiedo se tutto
quello che hai detto corrisponde a realtà o a fantasia e tu giuri e spergiuri,
ansimante, senza fiato, fissandomi dritta negli occhi e ti sbatto come un
pistone e aggiungi con voce malferma e interrotta dall’ansimare che prima di me
non lo avevi mai detto a nessuno e allora pianto io, questa volta, il naso tra
le tue dita dei piedi e perdo il controllo, perché il tuo sudore è sublime,
delizioso, divino, lo sento mio e ti sbatto fortissimo, sudando e tu cominci a
venire e io non posso resistere e mi piego su di te passandoti le braccia sotto
la schiena e mi abbracci, mi stringi, ti stritolo, poi smetti di respirare e
rimani a bocca aperta ed occhi chiusi e io faccio lo stesso, tentando di accelerare
i colpi e ti sento molle, senza vita, abbandonata, ma poi inspiri fortissimo ed
espiri in un grido, stringendomi, urlando che vieni e comincio a venire e sento
che mi bagni la pelle del pube e veniamo assieme, magnificamente, meravigliosamente,
follemente.
Ti stringo, sudata, puzzolente, animale come me. Stiamo lì nel niente a
dir niente e a far niente e io penso. Penso a te, a Londra, penso che dopo un
po’ non farai più su e giù e ti capisco, non ti condanno di certo, né antepongo
personali egoismi a questioni di vita, ma mi interrogo su quel che sarà di me,
su come reagirò, cosa farò e poi giro la testa e stai guardandomi, con gli
occhi sereni, perché sia la tua che la mia bestia ora riposano. Almeno per un
po’.
“Mi mancherai quando sarai a
Londra, sai?” ti dico come una collegiale mestruata al parco, di sabato.
Non dici nulla e metti la cascata di fusilli sul mio petto,
abbracciandomi, e ti carezzo la schiena.
Poi sollevi la testa, ti appoggi e mi guardi negli occhi e sorridi e
sei bellissima. Mi guardi un occhio, poi l’altro, poi la bocca, sollevi le sopraccigilia,
prendi fiato e io non respiro nemmeno in attesa che tu dica quel che stai per
dirmi, ma poi mi guardi e con gli occhi ti dico di no, di non dire niente che
non sia comprovabile in maniera scientifica e pare che mi ascolti e capisci e,
alla fine, dici.
“Non pensiamo a Londra. Pensiamo
al week end lungo che sarà bellissimo”.
Grazie, Chiara.