Come nei documentari sull’Africa bella e selvaggia. Dove scopri che
anche le cose che ti appaiono tenere e delicate sono, in realtà, l’espressione
di istinti e necessità basiche che si approssimano allo zero o all’uno senza
cifre intermedie.
Così la carne del corpo umano della Betta.
Rotonda, sensuale ed ammiccante, persino spiritosa, sicuramente
rassicurante quando la civiltà degli abiti e la tranquillità dello scorrere
quotidiano la incorniciano.
Cruda bellezza senza canoni, quindi assoluta, quando cruda e nuda.
Espressione di necessità istintiva e animale quando adagiata sinuosa su
bianche anonime lenzuola.
Dettagli.
Un mondo di entusiasmanti dettagli mozzafiato, a partire dai capezzoli,
ovali, scuri, grandi, duri, increspati di mille creste carnose concentriche
sulle quali si erigono tozzi ditali di carne in cui si distingue il forellino a
forma di scomposta ipsilon tripartita. Per continuare con le onde di morbida
carne sensuale che muove la pancia sotto l’ombelico, grande, profondo, ritorto,
nel quale si distinguono i forellini di un piercing abbandonato da tempo per
motivi ignoti e che non intendo scoprire. E poi, osservando con minuzia
maniacale, una traccia impercettibile di minutissimi peletti neri che dall’ombelico
si inseguono verso il pube, come orme solitarie su un manto di candida neve che
vanno a perdersi nel lucido bosco di peli robusti, scuri, lucidi, densi.
Un triangolo selvaggio e affascinante, lasciato incolto in attesa della
bella stagione. Un boschetto non esteso, ma selvatico, caldo, morbido,
profumato, alla cui estremità massima si sviluppa un paradiso di odore e sapore
e forme particolari, carnosissime, grosse, estroflesse, marcate, labbra calde,
scure, che una volta schiuse rivelano una sorpresa incredibile, commovente,
seducente.
Un piccolo cazzetto tozzo, lungo quasi un centimetro, un clitoride
plastico, visibile, masturbabile con due dita proprio come fosse un microscopico
cazzo. Delizioso da spompinare, paradisiaco per le reazioni che le induce. E
poi gambe lisce, candide, belle, che portano la lingua ai piedi sognati,
desiderati, agognati. Lisci, intarsiati di tendini e vene, le dita snodate, le
unghie coperte di anonimo e mite smalto trasparente. Caldi, robusti, inodori,
morbidi e duri di suola ingiallita dall’inverno inclemente e l’incavo increspato
e la caviglia e poi su di nuovo lungo l’interno delle tenere cosce fino alla
base delle natiche generose, amorevoli, che celano la vista del solco del culo intarsiato
di timida peluria che si erige sulla caldissima pelle pigmentata più scura e
poi il bocciolo, con una cresta ad uncino che solca il perineo e scompare nel
foro della vagina, quasi fosse una graffa che unisce i due fori in un’artistica
simbologia che esprime un sillogismo affermativo, che sottolinea i luoghi sacri
del piacere, profumato, animale, che invita ad essere annusato per rassicurare il
mio io animale che sì, che quella mammifera femmina in estro appartiene alla
mia razza ed è pronta alla monta e i suoi ferormoni lo indicano senza
possibilità di errore.
Mi sciolgo nella sua saliva e lei si scioglie nella mia, senza una
parola, senza un suono, ad eccezione del respiro intenso, libero di essere
fiato soffiato con forza, ad eccezione del rumore delle lingue che leccano
senza curarsi di non dover emettere suoni.
Una pausa nel tempo. Una cancellazione delle identità, un accantonamento
temporaneo dei legami, delle relazioni, dei rapporti uno a uno, uno a molti,
molti a uno e molti a molti. Unione. Un’unità animale, priva di remore,
scrupoli, timidezze, rimorsi, quesiti.
Un’unità fuori dal tempo e dagli schemi, perduta in una bolla
parallela.
E poi fuori nevica.
E io le lecco la schiena chiavandola lento alla pecora e le mie mani
non sono sazie di carne, di forme, di calore, di esplorare e sento il rumore
del cazzo che sciacquetta nei suoi abbondanti umori vischiosi e profumati e
sento le sue stupende mammelle animali che dondolano pesanti, appese al suo
petto e sento il suo mugolare e vedo la sua chioma leonina, nera, scomposta e
godo di come il mio enorme cazzo di marmo si perde nella scura valle delle sue
natiche e la scopo con tutta l’anima che ho.
Con l’anima.
Ti osservo mentre cavalchi lenta, sinuosa, rotonda, ipnotica, mentre le
tue mammelle stupende dondolano ritmiche e i tuoi occhi si chiudono ed un
ciuffo di nerissimi ricci ti cade sul volto sino a lambire la bocca che
respira, rumorosa, sofferente di tutto il cazzo che ti spingi in fondo, mentre inarchi
la schiena in avanti e all’indietro, ruotando sincronizzata il bacino a
svangarti la figa e sei bella, sei arte, sei una puttana berbera in una tenda nel
deserto mentre doni piacere al touareg che ha attraversato l’inferno, sei nuda,
sei un boa variopinto che si accoppia lentamente e fuori nevica e noi siamo qui
a dimenticare la vita e a parlarci coi sessi.
Poi ti giri e mi cavalchi a rovescio ed il mio cuore si ferma, sono in
uno stato di minima coscienza, osservando il tuo ano polposo che ad ogni
affondo che dai si schiude come una piccola bocca increspata e vi passo la
punta dell’indice, delicato, sortendo una tua nota soave, forse un sol, forse
un re e quando fai scivolare fuori la mia verga lentamente, per poi fagocitarla
con forza, godo delle tracce bianche di lucido muco che la ricoprono e ne
prendo tra le dita e lo assaggio, dolcissimo, intimissimo, estasiante.
Poi, come se sin lì si fosse trattato di un preludio suonato pianissimo,
scendi dal palo che ti ha donato il piacere, ti volti e lo succhi. Lo lecchi.
Lo ingoi più che puoi. Ed imprimi nuovo ritmo, nuova aria, nuovo movimento e
succhi, succhi vorace, veloce, mordi, lecchi con la lingua grandissima e piatta
e mi guardi dalle fessure erotiche e ostenti e vivacizzi, enfatizzi l’immagine
di te con il mio cazzo in bocca e istighi la carica, la caccia, l’attacco, la
violenza della lotta che precede la cattura della preda e io rispondo,
fraseggio, grugnisco godendo sino all’ultimo dendrite e ti schianto, ti prendo,
ti infilo la minchia tra i peli bagnati e ti spacco la figa senza pietà alcuna perché
questo è il momento della caccia spietata, ti fotto in ogni modo, spingendoti a
gridare, mugolare, picchiarmi i pugni sul petto, sulle spalle, senza rinunciare
a non darti tregua, leccandoti, mordendoti, ficcando fino alle palle la mazza
che da tanto, tantissimo, sofferto tempo desiderava darti ciò che meritavi, cioè
cazzo, cazzo, cazzo e ancora cazzo, il mio cazzo, mentre avverto impetuosa di
dentro un’onda che mi spinge il bacino a movimenti furiosi, ordinandomi sadica
di annientarti, di annichilirti, di possederti senza via di ritorno e ti
sbatto, ti faccio pagare tutto il desiderio che mi hai da sempre generato e tu
godi, sorridendo, ansimando, grugnendo, chiamando dio molte volte, chiamando la
tua mamma, la tua, divenendo assertiva di sì convinti e violenti ed allora,
solo allora, comincio a parlarti, per rendere isterico il desiderio e il
piacere e ti fornisco dettagli di base su cose che ho visto di te e cose che ho
poi fatto su di me e mi confessi che anche tu hai visto cose su di me che hanno
poi indotto cose su di te, su quel cazzetto ipnotico, ed il pensiero mi fa
sublimare il cervello e ti sguscio di fuori ordinandoti di farmi vedere come
fai e tu a gambe aperte ti tormenti epilettica la sorca sfondata e inzuppata e
io mi tiro e mi strozzo il cazzo e tu sbavi per la situazione e non resisto e
te lo sbatto dentro d’un fiato, senza pause, senza cerimonie e mi appoggio le
tue gambe sulle spalle e mi disarticolo le vertebre sacrali per fotterti l’utero
e succhiarti i piedi e mi guardi leccare, sollevandoti le mammelle gonfie,
succhiandoti rumorosa i capezzoli e poi smetto.
Smetto per schiacciarti col mio corpo, senza più virtuosismi e mi
abbracci e ansimi più forte, chiami dio, chiami dio, chiamo dio e poi urli un
canto berbero lungo e gutturale e io sbatto, perché è con l’anima che ti sto chiavando e voglio che vieni come non
sei mai venuta prima e anche se sento la sborra che marcia lenta resisto, resisto
sinché il tuo canto si affievolisce e mi richiedi, mi imponi, mi sottolinei che
hai bisogno, che non puoi rinunciare a sentirmi venire e io esco, strozzandomi
rapido, ma tu vuoi partecipare e mi seppellisce l’uccello tra quelle montagne
bollenti e le usi come fossero mani e io annego la tua catenina, quel pendaglio
d’oro con la medaglietta sacra, schizzo, irroro la tua pelle di seme odoroso e
poi ci baciamo.
Lenti. Appiccicosi.
E fuori nevica. Nevica. Nevica.
E in breve lì dentro si materializza quel dopo che assume molte forme e
manifestazioni, ma che viene sempre sottostimato, distorto. Il dopo non viene
valutato come quanto sta succedendo in seguito allo scontro di forze, ma sempre
come il prima di ciò che andrà ad accadere: il ritorno al lavoro, il ritorno a
casa, il sonno.
E così, chi svisa la valenza del dopo si perde l’intimità del
quotidiano, la seduzione involontaria di chi seduce suo malgrado.
Ve lo siete mai chiesti, sognando di chiavarvi un’emerita sconosciuta
di cui magari ignorate il nome, come sarà vederla asciugarsi le gambe dopo la
doccia che avrà fatto in seguito alla scopata?
Son dettagli di pura poesia che a volte mi attraggono più della
scopata.
E così con lei.
Com’è intimo vederla uscire dal bagno nuda, dopo la doccia e vederla
che ricomincia a vestirsi guardando preoccupata quel malefico mare di neve che
cade incessante. Com’è bello alzarsi e baciarla per sentirsi ripetere che è
stato “pazzesco, pazzesco, pazzesco” tra mille intimi baci bollenti e che non immaginava
e che è fin stordita da quanto “pazzesco” è stato tutto.
Poi stop.
Si va al nero due secondi.
I toni variano, i contenuti anche.
Ripasso del briefing.
Mi bacia con occhi di sogno e va.
Io resto e mi faccio una doccia, fuori nevica, nevica, nevica. Devo
proprio convincermi ad uscire.
Non devo schiantarmi, no, vietato, divieto.
Filtrare, distillare e mantenere la temperatura.
Ecco cosa devo fare.
Carnale Betta.