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sabato 15 aprile 2017

Fusilli dall'ombra del passato

Le cose nella vita capitano tutte d’un tratto e scombinano l’equilibrio che, con fatica sissifiana hai costruito sin lì. Noi si crede di essere in salvo, sciolti nell’abitudine della provincia lontanissima, ma come ciascun fuggiasco, dobbiamo essere consci che arriverà il giorno in cui ci cattureranno o, spesso, decideremo di farci catturare.

Venerdì Santo, ore venticinquantattro; approccio il portone di casa, nella mite piazza di Taziopoli, pronto ad una doccia e ad un ricongiungimento rapido con la brigata sgangherata con la quale sono uso ad unirmi nei lunghi intervalli in cui la mia colta concubina del momento è “impegnata”.
E sotto il portico, nel buio incerto, sbuca da un’auto parcheggiata, forse da tempo, una figura femminile, non alta, seppur issata su tacchi parabolicoiperbolici, jeans attillatissimi, impermeabile nero con cintura strozza fianchi, borsa appesa all’avambraccio, chioma riccia da Moderna Medusa che ben conosco.

“Brutto momento?” soffia quasi irridente dal basso della faccia buia fora dal bianco di occhi sorridenti che ben conosco, così come ben conosco il perché di quell’abbigliamento, di quel profumo, di quelle astrofisicovettoriali peeptoe sulle quali è impennata, facendo fare capolino a quel Rouge Noir che è fonte di vita per le viscere Tazionerchiali.

“No, perché? Ti aspettavo da un po’.” rispondo patetico come un attorucolo di quarta categoria che scimmiotta un cugino di Rick Blaine, ma in viale Forlanini e verso un travone dell’Ecuadòr.

La Riccetta.

Uovo di Pasqua inatteso, privo di biglietto di auguri, sale culea la mia scala per entrare nell’appartamento e stimarlo semisorridente e sbarazzina come una ragazzetta che visiona un lotto in vendita e sin lì conduce lei, sì, senza spiegazioni, senza parole, slacciando l’impermeabile e rimanendo con addosso una maglia lilla aderente e perforata di capezzoli duri che ben ricordo, sedendosi poi sul Divindivano accarezzandolo, quasi a dire “eccoti qui vecchio compagno di chiavate indecenti” e continua a condurre, con quel collo del piede nudo, teso di vene e tendini e quel sorriso trattenuto dal diventare una risata e conduce e io le lascio le briglie, la cassetta e il carro intero, perché sento il cazzo che mi diviene di marmo di Carrara rinforzato con verghe di titanio trattato con Kriptonite di prima selezione e, mentre lei si muove di moine bimbesche, reggendo lo sguardo a sfidarmi insolente, io mi avvicino, facendo suonare sorda la zip, attirando il suo sguardo sotto il mio punto vita, sgusciando il TitanoTazioCazzioDurusErectusBestiam, scappellandolo ed orientandolo verso la sua bocca che, con un sospiro cupo, ad occhi chiusi, ingoia la SommaCappellaVerghea, mentre con le mano mi trae a sé per i fianchi, per suggere quanto più la boccuccia innocente potesse suggere.

La Riccetta.

Succhia, succhia, succhia, succhia, succhia, succhia, succhia, succhia, succhia, succhia, succhia e poi tloc tloc, le imponenti calzature da mignotta cadono sul parquet e in un guizzo la maglia denuda il torace sensuale segnato da archetipi di impronte di bikini ed il cazzo le esce di bocca solo per quell’istante utile a far passare la maglia sulla testa e poi ancora succhia, succhia, succhia, succhia, succhia, succhia, succhia, tirandomi alle caviglie pantaloni e mutande, succhiandomi i coglioni, non proferendo parola sul mio irsuto aspetto ben diverso dal glabro stallone di un tempo, forse oggi più montone, od asino, o cane pastore del Caucaso con il quale la farei accoppiare e lei si accoppierebbe, se solo ne avessi uno.
Mi denudo in un guizzo e la stendo sul candore di pelle del Divino, armeggiando con l’incarnito bottone dei jeans, ultimo (e per certo unico) indumento indossato e li sbuccio di dosso, tirandoli a rovescio dalle caviglie, scoprendo un altrettanto irsuto triangolo ficale, denso, arruffato e quando libero la preda dalla morsa di cotone americano, vedo un bagliore che riluce sotto la fica stropicciata e la Schizza si gira, donandomi la vista delle terga sublimi, aprendole con le fantoline mani, offrendomi il luminoso finto diamante dell’allargaculo di classe che un tempo le donai, che cara, che commozione, che tenerezza e le bacio la natiche, la annuso ed odo una roca dichiarazione “Fammi essere la tua troia svuotacoioni” e la frase avrebbe meritato una sbrodolosa analisi, ma l’uomo deve scegliere ed io ho scelto di toglierle secco l’allargaculo e di sostituirlo col mio cazzo a pelle, passandole il raffinato oggetto che, nel gioire del calore bruciante del suo retto, ho visto scomparire nella sua soave bocca della verità per una rumorosa suzione mista a gemiti anali di piacere e divina sozzura fecale.

La Riccetta.

“Da quanto ce l’avevi in culo troia?” chiedo signorile, animato da attenzione nei suoi confronti, “Da stamattina, lo volevo largo per te” risponde a singhiozzi d’ossigenazione la Signora Riccioluta, mentre io affondo nelle sue viscere con solerte lena, al pari di un coltello caldo nel burro, inculandola come vuole lei e sin lì è ancora lei che conduce e io lascio fare, godendo del mio ruolo secondario senza creare turbamenti allo scorrere dei pianificati eventi.
E poi sulla schiena, chiavandola nel culo alla missionaria, mentre la Puttanissima s’affretta a sfregare le piante dei piedi adorati sul mio viso, anestetizzandomi di quel fetore magnifico di cui sono ancora intossicato e dipendente e poi le apro le gambe a V di vaso, tenendola per le caviglie e pompandole nella fica come un pistone cecoslovacco di uno Vzduchový Kompresor del 1951, affondando sino a farle male, scoprendo in un attimo che quelle ascellette che avevo sempre conosciuto ignude e glabre erano ricoperte di una pelurietta leggera e bagnata, odorosa, acidula, ormonale e mentre le sue gambe mi abbracciavano il culo ed io sbattevo colpi di maglio come non sbattevo da ere, la sue voce erotica mi confessava di essersi lavata per l’ultima volta la mattina del giorno prima “in tuo onore” ed un sentore di zolfo s’è mescolato con gli afrori ed io sono balzato fuori come daino maschio aitante e lei ha avvicinato il volto come suorina inquieta di fronte al nudo crocifisso sensuale ed io ho aperto le valvole inondando incurante, badando solo all’infante manina e all’appuntita linguetta.

La Riccetta.

“Ecco” rantolo sudato, inginocchiato sul DivDiv, “mi hai svuotato i coglioni”, quasi a stendere un improbabile incipit ad una insostenibile svolta del tipo “ora puoi tornare da dove sei venuta” pur sapendo che venuta non era ancora, ma a tanto lavorio di tempie si sostituisce un’inatteso bacio, caldo, salivoso, troppo sottovalutato in questa era orgasmica, troppo devastante nei suoi effetti emotivi ed affettivi.
“E’ bello essere qui” sibila abbracciandomi di pelle sudata, odorosa e vellutata che riaccende i ricordi e riossigena il cuore che tanto stava bene nella sua equilibrata anossia e conduce sempre lei ed io sto per chiedere, come credo lei s’aspettasse da pianificazione io chiedessi, qual malvento di sciagura la conducesse da me, ma interrompo la sua conduzione a binario certo e stappo un quesito imprevisto, che porta d’improvviso la conduzione a me.

“Resti fino a lunedì?” le chiedo accendendo un cannino prerollato dalla saggezza di ieri sera, passandoglielo nella certezza che avrebbe accettato.
“Lunedì?”
“Sì, lunedì?”
“Mi prendi alla sprovvista…” mugola soffiando colei che dall’improvvisata è assai distante per indole, come i fatti sottolineano.
La bacio amorevole, linguale, lei sorride, mi passa la canna, si stende mostrando le ascelle oscene e attraenti e, a occhi chiusi, sorridendo, mormora “Ma certo, sì, sin quando mi vuoi…”

La Riccetta.
Sin quando io la voglio, certo, come no, sì.
E conduce lei, nuovamente, offrendomi la vista della fica aperta, a gambe larghe.
E io provo a fottermene, seppur guardingo, non convinto, sentendomi preso per il culo, ma ricomincio a scoparla per farla venire, sniffandola come bamba, salendo come un ricco rampollo il sabato sera, godendo del contatto, la Squinzy, la Schizza, la Skiz, la Chiara è qui.

Con me.
E basta.
Cazzo.

Buona Pasqua.

domenica 9 aprile 2017

Shock



“Ti darò tutto quello che non so nemmeno che vuoi” e sopra quelle mammelle giunoniche che dondolano appena, nonostante il suo imbizzarrito cavalcare, compare come un sole su una scatola di tonno un sorriso distratto dal gran godere.

La perfezione assoluta, un corpo divino, curvilineo, culeo e tetteo, capelli d’oro che non mi sono mai piaciuti prima d’invaghirmi di lei, piedi nature con unghie magnifiche e ditina lunghe, un pube liscio e bombato, una passera che si arrossa, ma meglio si arrosa, un cervello che pensa, ben coltivato di studi classici ed università, un lavoro da giornalista professionista, due occhi da cartone animato giapponese e una costante voglia di chiavare.

Se non ce l’ha lei a 27 anni.
“Le misure contano eccome Tazio” mi dice sbrananando un cheesburger da McDonald
ed io mi chiedo, a parte le mie ragguardevoli dimensioni e la mia bellezza hollywoodiana, cosa leghi noi due, ben frequentati per un numero cospicuo di uscite culminate nella madre di tutte le chiavate, che già era di tenore sostenuto nelle premesse ed è divenuta isterica nell’esibizione della fesa di Tacchinosauro Nostrano, che è stata fatta scivolare in ogni dove ben prima che potessi dire “ecco questo è il soggiorno”.

“Mo va là che hai fatto tredici” mi dice il Max un po’ triste.
E forse ha ragione. La Paoletta è un’antagonista degna di sfidare il Tazio nell’agone della vita.

O nell’agonia della vita di Tazio.