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sabato 24 marzo 2012

Esaltante


Ore 12:30, suona il parlàfono.
“Chiarina infilati uno straccio che arriva l’Umbe che mi deve dire due cose”
Si alza mollissima e dirige in casa. Mi infilo i boxer e mi siedo di nuovo. Esce con una canotta nera lunga (corta) e si siede e si aspetta l’Umbe.

E arriva l’Umbe. Chiara ti ricordi l'Umbe, sì certo, ciao Umbe ciao Chiara, è passato un pochino, eh già.
“Volete una birra?” chiede la riccia pischella. Perché no, vado io, no te stai lì che vado io.
E l’Umbe attacca i motivi della visita a palazzo e lo ascolto, poi arrivan le birre.
“Se volete vi lascio soli” dice la donnina a modino.
“Ma scherzi, resta, non è certo un segreto, solo due dritte e un consiglio e poi schiodo, che lunedì non lo vedo e volevo fossimo allineati” si affanna l’ottimo Umbe.
Sediamo, io a capo tavola, Umbe alla mia sinsitra, la Squinzietta alla mia destra, appena distante dal tavolo che prende il sole in viso.

L’Umbe espone, io ascolto ed intervengo, la Squinzy tace.
Poi mi giro e la guardo e mi rendo conto, mi consapevolizzo, mi imbizzarrisco e mi distraggo, poiché la Riccia Sciagura siede a gambe schiuse, leggermente scivolata in avanti per appoggiare la testa allo schienale e là in mezzo, nell’incrocio delle meraviglie è visibile, senza alcuna tema di smentita, o dubbio, l’inequivocabile Fregna, la Sorca, la Fica, la Spacca, la Passera pelosa e perdo il contatto coi messaggi dell’Umbe perché prendo a chiedermi se tutto ciò è frutto di distrazione o di premeditata provocazione e mentre rispondo un po’ a fatica al povero tecnico, mi impegno a capire se anche lui è a parte di simile visione celeste e ho il sospetto che sì, che ne è a parte, a giudicare dal guizzare degli occhi verso la Riccia Agitprop che ad occhi chiusi si fa baciare dei raggi del sole, mentre noi baceremmo qualcos’altro di altrettanto splendente, ma assai più terreno e terrestre.

E si giunge all’epilogo, il buon Umbe saluta, è stato un piacere, scusate, ma figurati Umbe, piacere mio ciao e risale sull’antico fuoristrada e scompare tra la polvere del vialetto a doppia esse.
La polvere ancora aleggiava nell’aria, che quella canotta era già esanime sulla sedia e la Riccia Distratta si avviava a sdraiarsi dove, sin poco prima, era sdraiata.

“Chiarina, ma dimmi bene, ma l’hai fatto apposta a far vedere la figa all’Umbe?”
Si fa ombra sugli occhi con una mano, sorride e risponde.
“Ma io non ho fatto vedere la figa all’Umbe. Io ti ho fatto vedere me che faccio vedere la figa a un maschio, visto per la prima volta, davanti a te.”
E mi bacia.
E io resto stordito. E ci penso un pochino.

E trovo questa processo logico assolutamente esaltante.
Esaltante.

| Intensità emozionali |


I sandali così alti le fanno emergere delle deliziose vene che le intarsiano il collo del piede.
Sono sempre stato sensualmente attratto dai colli del piede intarsiati di vene.
Si guarda nello specchio doppio della stanza guardaroba, specchio grazie al quale riesce a vedersi la schiena.
Addosso ha solo il reggiseno nero.
Le natiche disordinatamente lucide di gel lubrificante, specie nel mezzo.
Ai piedi i sandali.
Tra le natiche il tassello rettangolare del plug anale, trasparente.
Si guarda con un sorriso.
Siedo davanti a lei, guardandola nello specchio che ha dietro.
“Cammina” le dico sottovoce.
E lei cammina, su quei ragnetti vertiginosi, ed il culo ingoia e sputa quel tassello così eccitante.
E poi torna in posizione, per guardarsi. Le abbraccio le gambe, mi accarezza la testa.
Prendo il tassello e lo ruoto e lei si morde il labbro inferiore, rammollita di lussuria.
“Ce ne sono con una lunga coda di crine di cavallo, sai?”
Sorride e mormora appena udibile “Ti piacerebbe che avessi la coda?” e mi tormenta i capelli, per poi appoggiarsi alla mia spalla per spingere in fuori il culo e guardare meglio ciò che esce di quel cono di gomma conficcato nell’ano.
“Sì. Te ne compro una. Ma mi piacerebbe anche che tu ti mettessi dentro questo quando usciamo”
Sorride e si morde metà del labbro inferiore.
“Tra poco farà caldo e me lo metterò” scorrendo le dita tra le natiche, toccando il tassello, muovendolo appena.
Rammollita, indebolita dalla voglia.
Le lecco l’ombelico.
Le guardo gli occhi nascosti dai capelli ricci che cadono in avanti.
Passo la mano tra le gambe e afferro il tassello, tirando lentamente. Si inarca leggera in avanti, avverto la prima resistenza, la sua bocca si foggia ad “O” muta. Esce.
Lo tengo in mano, trasparente, lucido, scompostamente coperto di gel.
Glielo porgo.
A lei la scelta, a lei la decisione di farne ciò che vuole.
Lo guarda, mi guarda.
Lo porta alla bocca, lo lecca, lo succhia, gli occhi sudici piantati nei mei.

Delicate intimità oscene, laide, estreme, inconfessabili, sublimi.
Non importa se quell’atto si è compiuto per compiacermi o per soddisfare un desiderio improvviso.
Non importa da dove comincia e perché comincia e come mai comincia.
Non importa.
Ciò che importa è il rarissimo valore assoluto delle |intensità emozionali|.

Chiarapensiero


“La vita è tutto quello che sta tra un tic ed un tac dell’orologio che segna il tempo. Passiamo tutta l’esistenza appesi alle lancette: attendiamo che passi un brutto periodo, non vediamo l’ora che si verifichi quell’evento, ci struggiamo nell’attesa che “un giorno” determinate cose si verifichino, che certe situazioni cambino, rimettiamo al futuro l’onere della nostra felicità, imputiamo al passato la responsabilità degli errori, viviamo il presente come transizione sofferta ed agognante e questo è il segreto dell’infelicità, se ci pensi, Taz.”

“E allora tu cosa consigli di fare, Chiaretta?”

“Di cambiare scala di misura. Di focalizzare di più il presente. Io oggi sono felice, domani forse lo sarò, ma non è sicuro, per cui perché devo dimenticare oggi in nome di qualcosa di simile domani, per poi non viverlo in attesa di un dopodomani? Bisogna cambiare metodo.”

“Vero, fila. Ma come la mettiamo se sei infelice?”

“La mettiamo che, almeno, è necessario l’impegno a non sfogliare continuamente l’album dei ricordi per fissare, istante dopo istante, che si è stati felici e ora non lo si è più. Oppure per pesare e sovrastimare quanto si sia esausti di non essere felici. Passato, futuro, mai nulla sul presente. Poi è ovvio che ci sono eccezioni, mica c’ho la verità di tutti in tasca. Ma per me, per la mia esperienza, questa cosa che ti dico è vera. Non esisterà mai un futuro se non si rende presentabili nel presente”

. . .

“Sai Taz, secondo me il sesso è sovrastimato. Gli si attribuiscono un sacco di cose, mentre il sesso è sesso. Io odio quelle che dicono “Quello??? Ah beh, quello è uno che c’ha in mente solo quella cosa lì” e si scandalizzano. Tutti c’abbiamo in mente “quella cosa lì” e anche diverse volte al giorno. E se quel tizio con te pensa solo a infilartelo dentro, vuol dire che in quel tizio non desti altri interessi al di fuori di scopare, per cui, o ci stai e scopi e godi e fine (se ne sei capace), oppure, se cerchi qualcuno che sia interessato alla tua opinione sulla crisi del secondo millennio rimanendo sere intere ad ascoltarti, stai uscendo col tizio sbagliato. Il sesso è sovrastimato: il grande male o il grande bene, ma perché? E’ sbagliato, il sesso è sesso e basta.”

. . .

“No, Taz, tu non sei “un maniaco sessuale”. Tu hai un’inesauribile voglia, quello sì. Ma è un delitto? Non credo. Sei un porco? Vabbè, se vogliamo usare ‘sto termine, sì sei un porco, ma solo perché ci metti dentro la creatività, perché sai che da una mela ci si tira fuori una triste mela cotta, una infantile mela grattugiata, una buona mela da prendere a morsi oppure del delizioso sidro. Ecco, tu sei uno che mira al sidro. E’ un delitto? No. O meglio, non è un delitto sino a quando non decidi (e tu lo fai che io lo so) che cominci a negarti come Tazio e sei esclusivamente disponibile a far del sidro. Ma vedi, anche qui, il problema mica è che c’hai tanta voglia, il problema è che tu Tazio hai deciso di isolarti e di isolare chi ti sta intorno e quindi, come dicevo prima, si dà troppa importanza al sesso.”

. . .

“La solitudine può essere vinta. Il vero problema è il masochistico piacere di compiangersi perché si è soli. Ti ricordi quella sciocchezza che ti raccontavano da bambini sul signore lamentoso?”

“No”

“Ci son due tizi che si sono persi nel deserto e hanno una sete pazzesca, ma uno dei due in continuazione dice “Che sete che ho, che sete che ho, che sete che ho…”. A un certo punto arrivano ad un oasi e quello che non si lamentava dice “Dio grazie che così questo beve e la fa finita” e vanno a bere. Bevono, bevono e l’altro, sollevando la testa dall’acqua comincia a dire “Che sete che avevo, che sete che avevo, che sete che avevo…”. Era una cosa stupida, ma pensa a quanti fanno così. Che solo che sono, che solo che sono, che solo che sono, che solo che ero, che solo che ero, che solo che ero. Ma vale anche con il “che felice che sono stato” sai? Che poi io credo che la felicità passata, come il sesso, sia sovrastimata.”

Già.

venerdì 23 marzo 2012

La calma del pesce fermo


“Stasera ti va di mangiare del pesce?” le chiedo mentre si asciuga i capelli nel caldino del bagno imperiale, che fa caldino anche in soggiorno che ho acceso due ciocchi, così, per far Vecchia Romagna Etichetta Nera con la sua atmosfera.
“Sì” mi dice sorridente, strofinando i fusilli bagnati con l’asciugamano.
E pesce sia.
Ritorno e picchietto sul notebook.
Lei non chiede e non sbircia, è una brava bambina.

E’ venerdì sera, c’è tutto il weekend davanti, ma che bello.
Vedremo di metterci dentro qualcosa, perché è importante metterci dentro qualcosa.
E’ come l’alimentazione: bisogna mangiare di tutto, per stare in salute.
Guardo il meteo e sembra che il probabile brutto slitti in avanti. Molto bene, dai. Se domani c’è il sole va benissimo. Vado a comperare la carne e faccio due cosette ai ferri che lì fuori c’è un caminone da trentasei persone. Massì.

Sembra di essere in vacanza. Veramente eh. Sarà l’ambiente nuovo, la stagione nuova, la sua compagnia. Che nuova non è affatto, anche se, per certi versi, in lei sono cambiate molte cose che la rendono nuova.

Certa è una cosa e me la sono detta oggi, con cautela. Vi sono ambiti che non esplorerò. Non ho nessuna intenzione di impantanarmi con richieste di deroga alla fedeltà, nè ho nessuna intenzione di assicurare fedeltà, così come, in generale, non ho nessuna intenzione di affrontare il tema della fedeltà in assoluto, né mia, né sua. Non è richiesto affatto, lo dico a me stesso, più che altro. Perché la tentazione di “ripulirmi” per essere un altro ce l’ho sempre, latente. Ma non stavolta, no. Che poi non so nemmeno cos’è, stavolta. E’ una storia? Non lo è? Non ho nessuna intenzione di rispondermi. Non sono cazzi miei. Mettiamola così.

Ciò che invece voglio, fortissimamente, è essere esattamente il deficiente che sono. Sì.
Ho voglia di giocare d’azzardo, per vedere se vado bene anche se sono un deficiente.
Inamovibile.
Così sono. Quel che vedi è quel che hai. As is.
E lasciamo la parola al tempo, con calma.
Calma.
Calma piatta.
Intanto una cosa è certa: stasera si mangia pesce.
E si beve del vino bianco.
Ma fermo.
Calmo.
Anche lui.

Pomeriggio mascalzone


Il gioco è lo start, tu giochi, io gioco, si ride e si scherza, ci si stuzzica e ci si irride, ti prendo, che bella, la pelle, le tette, la pancia, i bei peli selvatici, che fai, lascia fare, ma no, ma sì, si ride, ti tira, mi tira, vieni qui, che fai, adesso senti, ti piego, ti apro, ti schiudo, ti osservo, due ali d’angelo scure ed in mezzo il buchino carnoso, peloso, odoroso, appiccicoso, ti lecco, sorridi, ti adagi, mi esorti spingendo il bel culo contro il mio muso, ti succhio, ti irroro, ti inondo, ti grufolo, ti grugnisco, mi sorridi da stupenda puttana cercando di vedere che faccio, passando gli occhietti sotto l’ascella e poi ruggisci, ti perlustro di dentro, un dito, due dita, le uncino, ti tocco i tessuti lisci e bollenti, ti allargo, ti fotto il sedere umidiccio, tre dita e ti allargo, mugoli e ansimi, le ruoto, dilato, ti scopo e ti annuso, le assaggio, le succhio, poi dentro, le infilo, le sfilo, lecco intorno, oscilli, ondeggi, ti tieni, c’è il sole, siamo fuori, sia di casa, sia di testa, poi mi alzo e lo impugno, lo dirigo tra le ali dell’angelo zuppo e spingo e tu vocalizzi e mi esorti a far piano e io lo farò, non sia mai, anche se t’entrerei dentro dritto e diretto come un treno a vapore birmano, che quel buco del culo mi manda su Marte, che quando si è su Marte non si arriva e non si parte, ma ci si trattiene e ci si incula, ma con amore, con passione, con dedizione, che bruciorino magnifico alla cappella mentre ti entro nel culo e tu ansimi e poi sospendi di respirare e finalmente ce l’hai, ce l’hai tutto nel culo, piano piano, senza ledere, senza dolore, solo piacere e ti inarchi, quando senti il mio pube che preme sulle natiche belle e mi dici che hai i brividi fino alle caviglie e le gambe ti diventano molli e ti chiedo se godi e mi dici che godi, che è bellissimo sentirsi pieni di cazzo dal culo alla gola e ti dico che lo so e sorridi, poi mi piego su di te come il lupo mannaro e ti lecco la pelle salata di sudore e di odore e ti palpo, ti tocco, ti sussurro sozzerie che ti fanno sorridere laida e cerchi le mie mani, mentre il cazzo si fa strada avanti e indietro nel tuo budellino caldo vischioso e odoroso, che lo voglio squassare, allargare, sfibrare e rendere elastico e lo vuoi anche tu, me lo dici, vuoi prenderlo tutto, te lo do tutto e ti stropicci la fregna pisciona con la manina, mentre ti trivello il sedere con amore, passione e una ceppa di minchia che me la sento dura fino alla nuca, io adoro incularti, bella Squinzietta e tu mi dici che lo sai e che ti piace prenderlo nel culo a quel modo, nuda, all’aperto, appoggiata al tavolo su cui poco prima mangiavamo e appena comincio a sentire che stai cominciando a venire dal tormento di fica io ti monto, come giumenta in calore, come scrofetta sozzetta, come puttanella vogliosa, ti sbatto la minchia a martello nel culo e tu vieni vocalizzando disperata, vittima compiaciuta della carneficina che il mostro con un occhio solo sta perpetuando nel tuo intestino retto e non riesco a resistere e vengo, grugnendo, sbattendo e tu sorridi, a occhi chiusi, strizzando il buchino per quel po’ che riesci e poi sguscio ti giro e ti bacio, ti prendo in braccio e ti porto sull’erba, sugli asciugamani, dove ti tempesto di baci e carezze.

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Ho bigiato, oggi pomeriggio.
Non ce l’ho fatta, non avevo cazzi, né testa, né voglia di restarti lontano.
Te lo dico dritto d’un fiato e tu mi guardi seducente e felice, diluita nella luce radiosa del sorriso perfetto.
Accendi e mi passi.
Ti succhio un capezzolo ancora durissimo e mugoli.
Mi accarezzi la testa.
Mi passi.
Ti guardo.
Mi sussurri.
“Sono felice Taz”
“Anche io Squinzietta”
Oh sì.
Sì.

Molto distratto


Sono molto distratto, stamattina. Guardo fuori della finestra e vedo il sole e penso che quel maiale del sole starà baciando la pelle della Squinzy e lo invidio. Penso che, a furia di farsi baciare la pelle, la Squinzy si farà anche delle belle carezzine tra i peli odorosi, a gambe aperte, sul deck di legno, nuda.
E mi si trifola l’uccello, immediatamente.

Sono molto distratto, stamattina. Mi chiedo che gran minchia ci faccio qui come un alloccone imperiale, mentre un corpicino bollente e nudo è steso davanti alla cauntriaus, con quei piedini sporcaccioni che vorrei si facessero strada nel mio sederino, facendomi godere sozzo e sbarazzino nella fresca aria della primavera odorosa di corpo umano naturale.

Sono molto distratto, stamattina. Sarà che è da sedici eternità che non provo gusto per l’incognita di quel che ha da venire nel resto del giorno. Sarà che c’è il sole e che questo inverno noioso è finito, sarà che sto bene, sarà che mi stupisco che persone come il Ruggi, che non più tardi di un anno fa mi consigliava caldamente di non frequentare più la compagnia, oggi è gentile ed amichevole e penso che forse un po’ è stata anche colpa mia, che non avrei dovuto accanirmi contro le loro mogli in calore straniero, ma trovarmi un’amica, un’amica con cui passare del tempo e fare anche, perché no, del sesso ufficiale che non pianta le corna a nessuno, godendo del tempo e delle parole e delle emozioni.

Ma che cazzo sto dicendo?
Meglio che mi attrezzi a schiodare da qui, sto diventando matto.

Stupefacente


Chiamo il Ruggi dalla macchina venendo in ufficio. Devo affrontare l’affair vasca idro con lui.
“Ohi Tazio! Com’è? E’ una bella vita e mezza che non ci sente, come va?”
Eh sì è una vita e mezza.
D’altra parte tu sei emigrato in Lussemburgo, che mi è un po’ giù di mano per venirti a trovare.
“Ah ma non son mica più là io eh” e ride tossicchiando.
“Ah no? E dove sei?” chiedo temendo la risposta.
“A Montecarlo bellezza!” e ride tossicchiando di nuovo.
Eh beh. E dove se no? Quali sono i due posti, in Europa, dove c’è un da lavorare fitto così?
In Lussemburgo e a Montecarlo. Eh beh. Va ben.
Mi chiede del lavoro, gli racconto periferico, gli chiedo del suo, mi liquida con un paio di ossimori, una perifrasi e due tossicchianti risate. Ergo, nessun elemento per tentare di intuire che cazzo sta facendo.
“Oh Ruggi, ma scendi per Pasqua?”
“Ah no Taz, resto qui, faccio venire su mia sorella e il parentado e andiamo al mare” e mi corre la mente alla passerona pelosa della sorella troia e alla cabina e che porcona pazzesca.

Al che approfitto per esporre la mia idea sfolgorante, dettagliando al fine di ottenerne la concessione ruggerizia. Lui mi ascolta silente, poi fa una pausa e mi dice “ ‘Scoltamo, ma te hai preso la residenza là?” che mi gela di ghiaccio.
“No” rispondo “ce l’ho ancora di là”. Pausa.
“Ci sono problemi con la casa Ruggi? Dimmelo eh” incalzo vagamente ansioso.
“Problemi? Che problemi? Io non c’ho problemi, tanto non la venderò mai, di ‘sti tempi, mi va benissimo che ci sei te dentro, però Taz, l’affitto te lo devo chiedere. Per correttezza dei rapporti”
“E ci mancherebbe, cazzo, certo che sì” dico io di getto.
“No, te lo dico perché la Ade mi ha detto che non volevi pagarlo più” e mi viene un’ondata di acidità di stomaco che se avessi avuto la Ade sotto mano l’avrei decapitata.
“La Ade deve parlare per la Ade, non per Tazio. L’idea le è venuta a lei e io le ho detto subito che ero assolutamente contrario. Tanto per capirci Ruggi”
E lui ride. E si compiace che la Ade faccia girare i coglioni anche a me. E ridiamo, anche se non so il perché.

“Allora ascolta. Adesso ti mando un numero di telefono cellulare. Si chiama Fabrizio. Tu lo chiami e gli dici cosa vuoi fare e lui lo fa, che lo chiamo subito io adesso. Lui viene lì, vede, ti fa scegliere e mette su tutto che Fabrizio è bravissimo. Oh non mettere su una minchiata eh, prendi della roba buona, solo Jacuzzi, capito? Un 6/8 posti della Jacuzzi. Fatti far vedere i cataloghi e poi girami le fotine”
Che dico, cazzo sì, ma mi costa una retina un 6/8 posti della Jacuzzi, sicchè dico che (ehem) le cose mi vanno bene, ma non c’ho dei capitali da nababbo e parliamo di 10-12 mila euro solo la vasca.

“Oh ma mi capisci quando parlo?” dice ridendo. E mi vedo costretto a dire di no.
“Cazzo Taz, sei rincoglionito. Ti ho detto di chiamare Fabrizio o no? Tu dei soldi non devi preoccuparti. Basta che chiami Fabrizio”
Esterrefatto ringrazio e mi imbarazzo.

“Quand’è che vieni su a trovarmi, troia?” e ride.
Quasi quasi mi tenti di venire su a esprimerti la mia gratitudine in un modo in cui, dopo, mi esprimerai tu tantissima gratitudine allargata.

Fabrizio, ora.

Rilassarsi, cenare, sparecchiare e volersi del bene


Una maglietta grigia scollata rotonda, un cardiganone leggero, lungo, nero, coi bottoncini, leggins nere al polpaccio, fasciona nera che tiene indietro la cascata di fusilli, maniche rimboccate e, ai piedi, infradito bianche. E un sorriso. Luminoso.
Rientro e le strizzo le mammellette dure, ma morbide, mentre le lecco la lingua. C’è profumo di cibo, le luci sono calde ed accoglienti, il 50 pollici Sony Bravia, nella sua ammutolente brillantezza passa la CNN senza audio, mentre lo stereo passa dello sconosciuto fusion, che mi piace un bel po’.

Ci rilassiamo.
Mi ritrovo in mano un aperitivo che definirlo alcolico è relegarlo al ruolo di gazzosa. Brindiamo, beviamo.
Mi viene in mente subito, come fossi una cavia di Pavlov, la cosa del pompino e del televideo, ma questa volta no, questa volta vaffanculo pure la cosa del pompino e del televideo.
Qui siamo alle Isole Vergini, non a Motown.

Ceniamo.
Pasteggiamo a Valpolicella Ripasso, che ci sta alla perfezione. Lei abbandona le infradito e si accoccola scalza sulla sedia. Io sbircio e vado in estasi per l’impronta sudata del piede sulla suola delle ciabattine. Sono un Granporco, ma sono accettato. O, forse, apprezzato.

Sparecchiamo.
Godimento spinale, c’è la lavastoviglie imperiale, la si riempie e la si prepara e si schiaccia e finito.
Vum, vum, vum, fa lei, ci sediamo di là, finiamo il Valpolicella e parliamo. La lascio parlare, le massaggio i piedini, li annuso, li bacio, mi lascia esplorare, non ci sono segreti tra noi, né schermaglie, né riti di sottrazione. Siamo flat, siamo aperti, siamo onesti, siamo noi.

Ci vogliamo del bene.
Ci lecchiamo le bocche e le lingue lasciando che le mani tocchino tutto ciò che hanno bisogno di toccare e poi decolliamo leggeri e ci spogliamo leccando i lembi di pelle che via via vanno scoprendosi e non parliamo, ma respiriamo affannati, intrisi di voglia e di eccitazione, assaggiando, leccando, accarezzando, strofinandoci l’uno sull’altra, liberando il profumo di ormoni che ciascuno emana, dalla cappella, dalle ascelle, dall’ano, dai piedi, dal buco peloso della fica molliccia, schiusa e bagnata, ci fondiamo sul divano ultrachic, unendoci senza premesse, che le premesse stanno nel lontano pomeriggio onanista e sensualmente esibizionista, ed ora vogliamo che i nostri sessi si uniscano, si incastrino, l’uno dentro l’altra, lentamente, vischiosamente, sonoramente. Perché ci sono momenti e momenti, ed in alcuni momenti non si avverte per nulla l’esigenza di stupire con funambolici virtuosismi da lupanare estremo, ma si hanno solo bisogni. Ed il bisogno è diverso dall’esigenza, il bisogno è oltre il pensiero, il bisogno fa parte dell’animale buono, di quello umano, di quello che dice sono qui e sente dire, mentre lo dice, un sono qui gemello e assonante ed il piacere là sotto dirompe bollente, senza plastiche figure, ma solo pelle e odore e sapore e occhi e fiato in cui respirare, che con una Donna non v’è niente di più maestosamente erotico e rassicurante di respirarne il respiro, perché il respiro di una Donna è il soffio della vita e quando respiri il suo respiro, quando annusi l’aria che esce dai suoi polmoni caldi, quando inali quel fiato che esce dal suo corpo, non c’è più età, religione, politica, intelligenza, cultura, non c’è più niente al di fuori dell’enormità insuperabile della capacità di procreare, non c’è niente oltre alla magia della fertilità e l’istinto dell’uomo che respira il fiato divino è fecondarla, estasiato ed ammutolito dalla sensualità della Donna che può originare la vita, assurgendo all’inarrivabile Olimpo della Perfezione Cosmica.

La stringo tra le braccia e la accarezzo, accoccolata su di me.
Adoro la sua pelle sulla mia.
“A cosa pensi?” mi chiede.
E non provo l’istinto di cercare un badile per percuoterla, come mi accade quando altre pronunciano l’infausto quesito.
“A rimanere immobile” rispondo un po’ criptico.
“Puoi anche muoverti, non scomparirà niente” mi risponde stupendomi, per poi riaccoccolarsi su di me.
Serata perfetta.