E fu Nespresso.
Dalla Betta.
Una deliziosa nota rassicurante, materna e casalinga, nel marasma dimmerde che mi sto prendendo e nella piattezza pneumatica dei miei pensieri e della mia volontà.
Caffè, nero e caldo, anche se ci sono mille gradi fuori.
“Aha lo descriveresti così?” ghignavano le mie troiocompagne del liceo, assodando che la mia descrizione del caffè fosse la descrizione di “ciò che mi piace nel sesso” e se lo dice Madonnamoderna ci mancherebbe, puttanamiche, certo che sì.
Nero e caldo. Anche adesso che ci sono mille gradi fuori.
Ma oggi aggiungo anche: muscoloso, sudato, duro, grosso e lungo e in tutti gli orifizi in cui riesce a infilarmelo.
Saggezza dell’età, lo so.
In fin dei conti, però, avevano ragione loro a credere ai test di Puttanamadonnamoderna.
Che l’ho capito bene dopo, nella vita, a botte di antidepressivi e colloqui dimmerda: in fin dei conti Troiadimmerdamoderna è migliore di tanti luminari e luminaresse.
Nespresso e una sfinge muta, riccia, dalle curve mozzafiato.
Il mio, di fiato.
Mozzato dapprima vedendola dal di dietro, con quel culo imperial coloniale, poi dal davanti, dove ci sono sì le mammelle matrondittatoriali, ma soprattutto gli occhi sporchi che ridono.
Perché la Betta ha lo sguardo lurido, non c’è niente da fare. Ce l’ha anche quando non vuole, immaginiamoci se vuole.
“Perché vieni qui Taz? Non mi rispondere ‘per bere il caffè’, sii serio un secondo.” – mi chiede d’improvvsio, placida, con gli occhi lerci.
“Per te, Betta, per vederti, per te insomma...” – rispondo planando dalle natiche al suolo.
“Per me.” – chiosa la femmina avvelenata, stingendo le labbra buccali, con un punto finale che dice più di cento manuali.
E poi incalza, innervosita, non più sorridente, ma con l’occhio cattivo.
“Cioè mi vuoi scopare.”
“Non ho detto questo.” – che i punti so metterli anche io.
“Ah. Perché siamo ‘amici’ quindi…” – e lì mi infastidisco io, con quel virgolettato fatto con le dita che odio, perché se ti sto sul culo non mi invitare, machiccazzo sei, chiccazzo ti conosce.
“Ok, ho capito, è ora di andare” – e mi alzo deciso, mezza tazzina irrisolta.
Lei non mi ferma e io sono gonfio di incazzatura come un cobra. E se anche fosse stato un “sì ti voglio scopare” che cazzo sono ‘sti atteggiamenti? Nell’albergo sotto la neve mi facevo le seghe o c’eri anche tu, cazzo di quella merdafrocia?
E in una manciata di nanosecondi, i due neuroni che non mi sono bruciato ancora fanno conti, rapidi, fulminei, che uno schiaffone glielo voglio dare, pesante, che faccia male, ma non son sicuro, eppure devo rischiare, non son sicuro, ma devo provare, lo devo a me stesso, lo devo alla salma dell’Immenserrimo TazioSuperstar ora defunto, scomparso, deceduto, certamente venuto meno.
Molto meno.
E me lo devo cazzomerda.
“Ventotto gennaio” – le dico girandomi secco e drammatico come si confaceva al compianto Tazionissimo UltraSuperStar.
“Cosa?” – chiede lei, secca, non capendo. Ed allora a tutto vapore, controfigura di un Uomo, fallo per TazioIlDivino, fallo per la sua memoria immemore stette la salma immobile orba di tanto spiro.
“Ventotto gennaio duemiladodici. La prima volta che ci siamo baciati. Non ricordo quella di quando ci siamo scopati, però.”
E poi via, senza girarmi.
Che i punti qui li metto solo io, cazzomerda.
E poi vaffanculo Betta.
Vacci di corsa.
Vaffanculo.
Tu e il tuo Nespresso dimmerda.
Ma avrà capito?
Uno schiaffo di classe, si.
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