Sul far delle ventitre e quarantadue minuti rientro all’albergone lussuosone nella cui suite lussuosona una sensuale moldava dalle bellissime forme siede su una poltrona, accappatoiata di bianco, sgranocchiando biscotti al cioccolato, guardando un film dal linguaggio arcano.
“Ciao!” ella mi dice sorridente senza chiedere dove sono andato, né con chi ci sono andato. Brava.
“Ciao!” le rispondo inginocchiandomi dinnanzi alla poltrona sulla quale ella siede con le gambe rannicchiate ed i bei piedi nudi, approcciando la mia bocca a quelle erotiche estremità per succhiarle e far godere la mia lingua. Calde dita mi pettinano i capelli e un sorriso sfocato in secondo piano mi rilassa.
“Sei contenta che andiamo a Riga?” chiedo mentre mi spoglio per entrare in doccia a lavare via completamente la Venka dalla mia vita.
“Uh sì belizimo, mi piace sì” risponde squillante con quell’accento che tutti noi, puttanieri e non, conosciamo perfettamente e che a me piace per la cadenza che si impunta e poi sdrucciola.
E mi doccio.
Mi bagno e mi insapono le mani, ma poi una bella moldava nuda entra nel giganterrimo box doccia dicendo “Faccio io” e comincia a far schiuma da una spugna morbidissima che sfrega con lentezza in ogni plica del corpo, mentre la Venka grida un fioco “Addiooooo” scivolando nello scarico.
“Appoggia le mani sul muro e apri bene le gambe” mi sussurra soave la mia geishtitutassistente ed io obbedisco, godendo di tanta amorevole cura.
E penso.
Penso che a poco meno di un migliaio di chilometri da casa ho trovato una dimensione veramente buona, assolutamente al di sopra delle mie più rosee previsioni, in un Paese così dispersivamente grande da non saper nemmeno della mia esistenza, in mezzo a un popolo dalla lingua così difficile che vengo capito appena quando tento di parlarla e che, generalmente, non capisco quando viene parlata, ma sono in un gigantesco box doccia rivestito di pietre scure, con una bella figa di venticinque anni che mi lava così lentamente e così amorevolmente che la minchia punta al cielo con fare astronomico e, osservandole i segni appena più chiari lasciati dai triangoli di un costume usato in rarissime occasioni l’anno scorso, mi eccito e mi dico che son contento.
Sì.
Le lingue guizzano in un abbraccio acquoso e penso alle stupide aspettative della Venka e carezzo le sferiche chiappe appena un po’ generose della Romi e sento la minchia che le spinge sulla pancia e penso al Costa che è così inzaccherato nella merda di fogna più bassa della città e ci sguazza come una pantegana autoctona e penso che andrò a Riga con lei e saranno bei giorni e, commosso dall’entusiasmo, la sollevo da terra appoggiandole la schiena al muro, scivolandole dentro aiutato dalla sua mano, reggendola di peso da sotto le cosce per cominciare a chiavarla con affetto ed amore, senza mai smettere di slinguarla, perché mi piace da pazzi come limona e, mentre le chiavo il buco bollente della fica sotto l’enorme getto caldo della doccia, penso che fuori piove e io sono lì con la mia femmina, che esegue e non chiede, che non alza un sopracciglio di disappunto mai, che si accosta con curiosità al letame sessuale che riempie la mia testa e io la chiavo lentamente e accuratamente, per farla godere da crisi epilettica, mentre fuori piove.
E anche se mi sforzo, amici, non vedo difetti in questo stato di grazia.
No.
Son contento.
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