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venerdì 9 dicembre 2011

Tracce del passato


In quella fase della vita in cui vi è una grande confusione dovuta allo sciamare dei riferimenti fanciulleschi a favore della comparsa degli embrioni dei riferimenti adulti, cioè nell’adolescenza, frequentai una persona formalmente adulta che non contribuì affatto alla mia transizione da un mondo a quell’altro.
Non mi soffermerò sulle circostanze ed il contesto della nostra conoscenza, ma vi basti sapere che la frequentavo regolarmente anche con il beneplacito della mia famiglia, essendo questa persona appartenente a quella borghesia che ha sempre attratto la stima ed il rispetto reverenziale nelle galassie sociali ancora intrise di dopoguerra.

La chiameremo, per convenzione, Rachele.
Rachele, nel periodo in cui frequentai casa sua con assiduità, era insegnante del Ginnasio. Non era sposata, viveva sola ed era un’apprezzata ospite dei salotti buoni della città. La sua età, per un ragazzo di quindici anni, era di difficile determinazione; solo col tempo e con alcuni collage di dettagli giunsi a ritenere plausibile che avesse avuto poco meno di cinquant’anni.
Il suo aspetto era decisamente austero, a partire dalla costante contrattura della muscolatura facciale, per continuare con l’acconciatura assolutamente senza spazi alla frivolezza, per terminare nell’abbigliamento, probabilmente più consono a trent’anni prima che al finire degli anni ottanta.
Rachele era, una volta spostati tutti gli elementi di distrazione, una donna di dissimulata bellezza.

Iniziai ad andare a renderle omaggio pomeridiano sotto la pressione dei miei, che ritenevano che la conoscenza della Professoressa Rachele mi avrebbe potuto accrescere culturalmente e socialmente, considerata la fitta rete di conoscenze di cui essa godeva.
Fu, in altre parole, un sacrificio ineludibile, al pari di quello che dovevano sopportare i ragazzini che andavano a lezione di violino non possedendo alcun talento o a quello di chi era costretto a lunghe ed inutili lezioni di nuoto pur non possedendo alcuna attitudine sportiva.

E così, le prime volte, sedevo in quel salotto ammuffito, freddo, scomodo, decomposto simulacro di supposti agi scomparsi di una famiglia anch’essa quasi totalmente scomparsa. Rachele era estremamente intelligente e, conscia di quanto anacronistico potesse risultare quell’ambiente ad un ragazzino contemporaneo, decise di farmi leggere a voce alta L’amica di nonna Speranza  di Guido Gozzano:

Loreto impagliato e il busto d'Alfieri, di Napoleone, 
i fiori in cornice (le buone cose di pessimo gusto!)

il caminetto un po' tetro, le scatole senza confetti, 

i frutti di marmo protetti dalle campane di vetro,

un qualche raro balocco, gli scrigni fatti di valve, 

gli oggetti col mònito, salve, ricordo, le noci di cocco,

Venezia ritratta a musaici, gli acquerelli un po' scialbi,

le stampe, i cofani, gli albi dipinti d'anemoni arcaici,

le tele di Massimo d'Azeglio, le miniature, 

i dagherottipi: figure sognanti in perplessità,  

il gran lampadario vetusto che pende a mezzo il salone 

e immilla nel quarzo le buone cose di pessimo gusto,

il cúcu dell'ore che canta, le sedie parate a damasco 

chermisi... rinasco, rinasco del mille ottocento cinquanta!

Attraverso quel complesso metodo di comunicazione prendemmo le reciproche misure, giungendo a livelli di confidenza crescenti. Che non significa che si instaurarono rapporti cordiali e amichevole, ma semplicemente rapporti più estesi.
Frequentai la casa di Rachele due pomeriggi la settimana per due ore alla volta. Lo feci dai quindici ai diciassette anni. Avanzando nel tempo, la lettura lasciò spazio al dialogo, al confronto dialettico, alle opinioni. Con una caratteristica, però. L’opinione che chiudeva l’argomento era quella di Rachele.
Era un modo per ribadire il suo ruolo di educatrice.

Rachele amava avviare lunghi monologhi sulla caduta del positivismo scientifico e sul decadentismo, su Nietsche, su I canti di Ossian di James Macpherson, su argomenti, insomma, di una noia mortale per un ragazzo ed io, che ero annoiabile anche più degli altri ragazzi, attivavo un meccanismo con cui mi perdevo con la mente altrove, cercando di sopportare quella monocorde litania in attesa che l’orologio venisse a salvarmi.

Ed un adolescente in compagnia di una femmina, poiché Rachele per quanto agée e scostante rimaneva pur sempre una femmina, pensa al sesso. Vi è da dire che l’allure istituzionale di Rachele diveniva disincentivante l’inerpicarsi lungo articolate costruzioni pornografiche, ma non impediva la semplice osservazione e le mille domande tecniche su forme, consistenze, pelosità, tenerezze, calore e tutto quanto sino a quel momento, era una acculturata teoria assolutamente priva di pratica.

In corrispondenza di quei monologhi seguivano, puntualmente, delle sedute prolungate nel bagno di casa, in cui mi masturbavo a casaccio, per rivitalizzarmi, ma senza precise costruzioni analoghe a quelle che compivo con dovizia di particolari quando il soggetto era una coetanea compagna di scuola.
Adolescenza. Incontenibile adolescenza.

Un pomeriggio, sedendo dinnanzi a lei mentre snodava monotona il fiume di colte parole la costrinsi, mio assoluto malgrado, ad interrompere la disamina su Paul Verlaine e il simbolismo.
Abbassò gli occhiali e mi guardò, mentre io tremavo in attesa dei suoi strali, perché io sapevo bene cosa stava succedendo.

“Hai un’erezione!?” mi chiese gelidamente accigliata e, onestamente, stupita. Comprensibile stupore, ritengo, dato che sì, il simbolismo e Verlaine sono argomenti assolutamente affascinanti, ma avere un’erezione parlandone è a dir poco bizzarro. D’altro canto era inutile tentare di smentire, poiché l’apprezzata caratteristica che oggi mi distingue tra molti era già presente all’epoca ed il rigonfiamento nei pantaloni non lasciava spazio al dubbio. Goffamente mi scusai, cercando di assumere posizioni esoteriche che tentassero di minimizzare la situazione, mentre Rachele soppesava gli occhiali osservandomi severa.

Ripose il segnalibro in mezzo a Romances sans paroles, dando vita ad un lungo e crudele silenzio.
“Posso sapere i motivi della tua erezione?” chiese ad un tratto e fu come se un macigno fosse caduto nel salottino.
“Non glielo saprei dire, Professoressa, mi scuso ancora”
“Un’erezione spontanea, quindi?”
“Sì, spontanea, glielo giuro”
Solo col tempo capii che la risposta esatta era un’altra, ma se l’avessi azzeccata avrei avuto venticinque anni e non diciassette.

L’episodio diede la stura a nuove citazioni letterarie e filosofiche. Imparai più approfonditamente il decadentismo, D’Annunzio, il concetto di primitivo, di irrazionale, di passionale e di erotismo e sessualità. Imparai che non dovevo vergognarmi di un’erezione, ma dovevo vergognarmi solo di ridurla alla masturbazione, poiché il piacere ritraibile da quell’erezione era di gran lunga superiore a quello derivante dal suo declassamento a terreno problema da risolvere.

E si mise a parlare del mio cazzo duro con la stessa severità con cui parlava di Verlaine e questo mi scombussolò. Quell’episodio fu il primo passo di una rivoluzione dei canoni di educazione: non più una pioggia di classici sulla mia inetta vita, ma la mia stessa inetta vita, così terrena, così banale, diveniva il vettore della collocazione del classico adeguato, di quello che poteva ingentilire la primordialità delle mie reazioni basiche.

Fu anche il primo passo verso il manifestarsi delle sue curiosità morbose. Che iniziarono con sporadiche comparse, per poi intensificarsi, divenendo quasi l’argomento di chiusura dei nostri incontri di due ore, per due volte la settimana. Nell’ultima mezz’ora, Rachele sedeva accanto a me sul divano piccolo e, con voce da gran segreto, mi chiedeva di confidarle le cose fatte e pensate durante i giorni in cui non ci eravamo visti.
Fu l’inizio del plagio. Fece forza sul contesto: lei era donna morigerata e rispettabile, io un ragazzino. Ogni cosa che provenisse da lei era il bene, il giusto, ogni istinto che provenisse da me era sbagliato in quanto tale, a meno che non subisse l’ingentilimento che solo la sua grande cultura e il suo grande sapere potevano infondere. E così, assodato che quelle cose adulte erano bene solo se guidate e orchestrate da lei, assodata anche l’incondizionata ed ubiquitaria stima di Rachele, mi lasciai avvolgere dalle spire della sua morbosità, narrandole ogni volta, con aumentata dovizia di particolari ogni mia sega, ogni mio pensiero su compagne e professoresse e, un disgraziato giorno, anche su di lei.

Accrebbi, così, in lei l’idea del controllo totale: la conoscenza di ogni mia reazione e la sua potenzialità di indurne a piacimento, seguendo le indicazioni semplici che io stesso le avevo indicato. E quel gioco, verso il quale all’inizio mi sottoponevo come estremo atto di un sacrificio ineludibile, divenne col tempo una sorta di sordido piacere del confessare, nel vuotare il sacco sempre con maggiore disinvoltura, con maggior crudezza esplicita nel linguaggio, crudezza seguita da lei stessa, quasi a suggellare una condivisa forma di comunicazione intima e adulta. Nell’acerba e patetica convinzione che i mie atti, le mie cose, le mie parole volgari la eccitassero, assolutamente ignaro che ciò che la eccitava micidialmente era il potere di controllo, la sicura e sconfinata possibilità di indurmi a fare qualsiasi cosa, grazie alla coercizione del ruolo e alla conquistata  e crescente fiducia.

Poi arrivò Liliana.
Io non ero un drago con le ragazze, al liceo, no. E Liliana non apparteneva alle cerchie scolastiche fighette.
E così, sfigati entrambi, ci mettemmo assieme. Con obiettivi diversi, come sempre succede. Lei ambendo ad un canonico rapporto amoroso, io ambendo alla scoperta della pratica mancante a tutta la teoria sin lì perfettamente  imparata e pervicacemente ripassata giornalmente.
Ne parlai a Rachele, ovviamente. Che fu prodiga di suggerimenti e avida di dettagli.
E così cominciò un gioco in cui si introdusse una cavia: Liliana.
Rachele mi diceva cosa le sarebbe piaciuto io le facessi nell’intimità e io lo facevo, ritornando poi da lei a riferire per filo e per segno ogni cosa, seduti sul divanetto polveroso, con la luce spenta e la stanza debolmente illuminata dai soli lampioni stradali sottostanti.

L’eccitazione di Rachele per i dettagli relativi alla giovane donna era palpabile. Così come era palpabile , nonché regolarmente palpata, la mia erezione. Ma non per un approccio sessuale, no. Solo perché Rachele doveva e voleva rendersi conto del livello di eccitazione che questi “salottini” sozzi sortivano su di me.
Per un paio di settimane Rachele si limitò a chiedermi di fare cose relativamente semplici, effettuabili anche in un cantone buio tra due vie, ma subito dopo perfezionò, ampliandoli, i dettagli delle sue richieste.
Ed apparve subito chiara l’impossibilità di eseguire le sue richieste al cantone buio.

Il gioco parve arenato.
Tornammo sui classici, su Verlaine, su Rimbaud, sul decadentismo, il simbolismo ed ogni altra falsa diavoleria attuata per prendere tempo, per lasciar decantare la situazione.

Sinché un pomeriggio, sul divanetto delle confessioni sozze, Rachele mi fece una proposta.
Mi disse di raccontare alla ragazza di avere la disponibilità dell’appartamento della vecchia zia che in quei giorni era a trovare lontani parenti. Mi propose, in altre parole, di usare casa sua per poter dare vita a quei giochi che, vanamente, mi aveva sin lì chiesto di fare. Mi mostrò la stanza in cui avrei potuto farli. Una stanza con un altissimo letto matrimoniale affogato in un’opera d’ebanista che rievocava il coro di una basilica gotica. Una proposta allettante. La soluzione perfetta.
Le chiesi lei dove sarebbe stata, durante quelle ore.

“Là dietro a guardarvi” disse risoluta, indicando l’enorme specchio sopra il comò. Rimasi di stucco. L’enorme specchio altro non era che un vetro specchiato, dietro al quale si apriva l’interno dell’armadio della camera da letto di Rachele.
“Lo fece costruire mio padre, per spiare gli ospiti, quando ve ne erano. Mio padre e mia madre erano dei depravati”. Un affare di famiglia.
Mi condusse così nella sua stanza, aprì l’armadio, estrasse degli abiti e mi mostrò la piccola feritoia nel muro, della dimensione di un mattone, oltre la quale era visibile la stanza degli ospiti.
Dissi che ci dovevo pensare, ma poi, ogni volta che mi allacciavo in qualche modo a Liliana, l’idea di avere, tutto sommato, un campo d’azione libero per sperimentare su di lei era forte.
Ed accettai.

Propagando il plagio e la menzogna, il tradimento e l’aberrazione. Perché plagio, menzogna e tradimento si propagano come un virus.

Fu un sabato pomeriggio. Da ragazzi, di sabato pomeriggio, era lecito essere in giro ed i controlli parentali erano pressoché inesistenti. Liliana accettò di venire a casa della vecchia zia e così, a metà pomeriggio, cominciammo quel lento e sofferente percorso che era dato dai desideri di Rachele in cambio di un letto su cui esaudire anche i miei, i nostri, desideri.
Sarò sincero e devo dire che l’idea di essere osservato in segreto mi mise a disagio solo per poco. L’entusiasmo di giacere nudo con una coetanea in un letto dissipò molto velocemente quel pensiero. Ma non mi fece scordare i miei doveri, le mie perlustrazioni intime, le mie richieste, i miei compiti a casa.
Che però, per il fatto di essere troppo adulti, oltre a risultare insignificanti sotto un profilo del coinvolgimento sessuale, mi fecero correre il rischio di sembrare troppo strano.
E così, a un certo punto, gettai la spugna, gettando anche una sorta di sguardo di scuse verso lo specchio.

Sprecai, in altre parole, due ore di goffo, imperfetto e sublime amore giovanile.

Il martedì andai a lezione, come di consueto.
Nulla era mutato. Affrontammo le solite letture, con medesima serietà. Ed altrettanto consuetamente ci sedemmo per l’ultima mezz’ora sul divano delle sozze confessioni. Sbrodolò incerti ed eccitati apprezzamenti sui nostri corpi e sul mio cazzo, carezzandomi isterica la coscia di sinistra. Poi si disse rammaricata della resistenza che la giovane Liliana aveva posto nei confronti della realizzazione dei suoi desideri. Si rammaricò anche che la giovane Liliana avesse posto resistenza nei confronti di quelli che parevano essere miei desideri. Ed analizzando il sordido teatrino che fu, continuava a saggiare la consistenza della mia erezione che, per quanto non vi fosse inizialmente, a furia di saggiarne la consistenza si palesò esuberante.

Poi, quasi come un fulmine a ciel sereno, sentenziò a bassa voce in un orecchio.
“Ma non c’è da disperarsi…” disse saggiando la consistenza “… il rimedio ci sarebbe …” ed io mi incuriosii non poco. Rimedio? A cosa? Presto detto.
“… se tu farai a me ciò che lei non si è lasciata fare, io ti lascerò fare e ti farò ciò che lei ti ha negato …” e la verifica della consistenza si fece ben più decisa e fu un esplicito invito a toccarle i seni e poi fu buio e poi furono ruvide lenzuola e pelle e mollezze e odore e peli e saliva e respiri, sorrisi scintillanti di follia, avvolgente bollore bagnato e appiccicoso muscolo duro che strozza e bocca che succhia rumorosa e lingua che lecca, voci che mormorano eretiche ed erotiche oscenità crude che Verlaine sicuramente non serbava nel suo lessico, ascelle calde e pelose, capelli spettinati, guance bagnate di saliva e sperma e fu un tifone, un uragano nella mia inespressa esistenza, fu forse un danno infinito mascherato da sesso, fu una lezione accelerata su tutto, fu il piacere viscerale di leccare piedi per la prima volta, di annusare l’ano di donna scoprendo che odora diversamente dal tuo, fu voragine, fu caduta libera senza appigli, perché anche se giovane, capii che dopo quello, niente avrebbe potuto essere comparabile.

Rovinato.
Spezzato, risucchiato dalla deriva che mi portava ad essere vecchio, nemmeno adulto, ma direttamente vecchio, immerso nelle depravazioni che stagnano nei corpi vecchi e si acuiscono con l’età ed io ero entrato al cinema pagando il biglietto per assistere direttamente all’ultima scena senza capire chi fosse l’assassino e perché.

Smisi di frequentarla, dopo un po’. Riuscii a raccogliere le forse e a dirle che la mia cultura era sufficientemente estesa. Non fece resistenza, ma mi lasciò con una minaccia che mi attendevo.
Morì dopo molti anni d quegli epidosi.

Lo seppi da sua sorella, che mi contattò telefonicamente per darmi un libro che Rachele aveva lasciato scritto che voleva che io avessi.

Il libro era La Noia di Moravia.
La sorella era Madame Inquieta.

3 commenti:

  1. poesia allo stato puro...anche se ora si capiscono meglio molte cose.
    Un abbraccio
    GQ

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  2. Comprendo, forse molto meglio di quanto tu non possa pensare, ma non posso che provare un'infinita tristezza e tanto sgomento.

    f.

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