Bon jour, bon jour, bon
jour.
E’ sabato, è passata la settimana della malattia, sono debole, ma
complessivamente felice.
La serata di ieri è stata perfetta, mantenuta entro limiti consoni con
il mio processo di acquisizione di nuova consapevolezza, senza sacrificio di
sudiciume morale. E’ un avanzamento di rilevante successo.
Osservo il Miramonti dalla finestra della mia cucina e lo vedo a
livelli di decadenza impressionanti.
Là, dove l’ottimo Cazzulati ha trascorso gli ultimi momenti della sua
vita, pare non esservi nuova vita.
Lì, dove nude carni mature si esibivano quotidianamente al fine di esortare
le mie giovani e sublimi carni ad esibirsi, non c’è che una tenda che cela.
Accanto a me non c’è più la signora che ferrava i cavalli in cucina, me
lo ha detto la sensualissima ed irresistibile Lucia Perrone. E’ andata ad
abitare con la figlia a Faenza.
A casa del Pestalozzi trafila l’acqua da una tubatura dal piano di
sopra e pare non si trovi nessuno dell’amministrazione di questa stalla sociale
per venire ad effettuare il lavoro di manutenzione.
Il Pestalozzi, costituendo l’eccezione che conferma la regola di
Scilvio che pervede che l’Italia sia costituita da benestanti, non c’ha una
palanca per effettuarsi i lavori da solo. Però non è che si può lasciare lì,
perché va marcio il mondo e poi, secondo me, è tanto meglio verificare che
cazzo c’è dentro a quel muro.
In settimana ci mando Max, facendogli dire che è della ditta che fa
manutenzione allo stabile, così non urto la sua sensibilità e non mortifico la
sua dignità, ma risolviamo ‘sto problema.
“Ma noooo … ma davvero vuoi
andare via?” e il dispiacere si leggeva sul visino di quella donnina vecchina
minuta e allora ho dovuto sdrammatizzare subito.
“Beh, dipende Lucia, potrei anche decidere di restare se…”
“Se?”
“Beh, Lucia, se lei fosse “gentile”
con me, venendomi a trovare qualche volta ben disposta…”
“Ma io sono sempre ben disposta
Tazio? Ma cosa dici?” e capisco che il palese riferimento così palese non
era.
“Nel senso, dicevo Lucia, che
magari io e lei potremmo fare delle cosette da soli e….”
Mi fa morire. E’ diventata rossa, si è messa a ridere dandomi delle
pacchette su una spalla dicendomi che sono un mascalzone e che c’era arrivata adesso.
“Sai cosa ti meriteresti? Lo sai?
Ti meriteresti che ci venissi veramente e che allora TI TOCCA poi farle quelle
cosette che fai tanto lo spiritoso, vemò cosa ti dico, disgraziato che mi
prendi in giro!”.
Ah, il mito, la leggenda, la leggendaria Lucia, mai nessuna potrà batterla.
“Ma te, ma te lo sai da quanto
non faccio l’amore io, eh? Lo sai te?” mi sussurra concitata all’orecchio
che sia mai che la si senta fare di ‘sti discorsi.
La invito a dirmelo.
“Saran vent’anni, non mi ricordo
neanche come si fa, non mi ricordo” detto con la stessa stizza che avrebbe
se mi raccontasse che le han rubato la bicicletta.
Allora bisogna mandare tutto in vacca, sperando che quel rossore
permanente non sia pressione e che, insistendo, non le venga un coccolone.
“Mi sembra troppo Lucia”
sussurro “se viene di sopra la faccio
giocare col birillone che vedrà che le viene poi in mente tutto e io l’aiuto a
ricordare”.
E lei mi picchia i pugnetti dicendomi “Vamò via, non star qui a farmi rabire, mascalzone!” e così la
bacio in fronte, le faccio una carezza e salgo, perché non voglio farla rabire, no.
E’ che si scherza ed è di un divertente imbattibile.
Anche se a me il pensiero di leccargliela, mi ingrifa come un bisonte.
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