Mi interrogo su chi sia il pervertito depravato che ha introdotto sul
mercato il kamut.
Il kamut. Ma chi cazzo lo ha
mai sentito nominare, nei precedenti millenni, il kamut? I sumeri? Gli Ittiti? I Katzuti? Eppure la matrona vintage
che mi stabula accanto, lungo la corsia della pasta, impartisce ordini alla
figlia. Perentori ordini a fastidiosa voce alta.
“Prendi quella al kamut. Quella
al kamut. Sai? Eleonora? Hai capito?” – “Sì mamma cazzo”.
Coraggio Eleonora, più tardi potrai drogarti, che è sabato, e di questa
fazenda del kamut non ti rimarrà
nulla.
Io, però, sono esterrefatto. Questo mammifero anziano, di grossa mole,
si alimenta di kamut.
Ed è in tensione, perché se la giovane rampolla non procurerà la pasta
al kamut, ella perirà.
Spirito di conservazione della specie.
Delle specie. Le specie di kamutivori.
Svolto la corsia, manca l’aceto.
Prima di giungere allo scaffale delle bottiglie di aceto bianco Ponti vengo
assalito da un dubbio: mica esisterà l’aceto al kamut vero? No, per fortuna non esiste. Solo aceto di vino, di
vinaccio vigliacco, ignorante, come piace a me.
Svolto corsia, manca il caffè solubile.
E lì il botto.
Poco più di trent’anni, fisico da pallavolista, altissima, la faccia da
ragazza che ha studiato, il fisico della ragazza che fa sport, l’insieme che
indica che fa un mestiere business, bella dietro quegli occhiali da
intellettuale, raffinata anche se paludata da jogger del sabato che corre al
supermercato a sbrigare in velocità la spesa, che per lei è una seccatura da
maneggiare rapidi, mentre per il popolo è un rito. Una stangona con un bel culo
generoso, fasciato dalle consunte braghine della tuta blu. Ma tutto questo non
è niente. Perché ciò che è veramente, ciò che la pone nella storia del 2012, è
che la walchiria indaffarata ed incurante, ai piedi calza un paio di Birkenstock infradito che le scoprono i grandi piedi nudi, affusolati ed elegantissimi.
Unghie curate, niente smalto, chiare quasi come la bianchissima pelle.
Il primo paio di piedi scoperti del 2012! Ma vieni!
Il momento è epocale.
Sono emozionato come uno scolaretto, trascuro la mia spesa e prendo a transitarle
pateticamente accanto con pretesti leciti, per quanto io non nutra alcun
interesse per le cartine acchiappa colore, dato che vesto di nero e di jeans in
maniera compulsiva, ma la lettura delle istruzioni rende ammissibile che io
guardi in basso, ipnotizzato da quelle dita nude, da quell’alluce così bello, per
il quale sogno sommessamente intimi utilizzi.
Piedi, mio dio, piedi nudi di donna, sono estasiato. State tornando
quindi, piccoli amici e compagni di mille scappellate e ciò che si mormora è
una realtà allora, e la walchiria è l’avamposto delle truppe scalze che saggia
la sostenibilità del denudamento delle sessuali estremità e mi pare che regga
alla grande.
Si-può-fare!
Signore tutte! Presto! Qui! Qui! Osservate la Regina 2012, la prima
donna scalza dell’anno! Emulatela! Emulatela! Bruciate collant e stupide calze,
a rete, di microfibra e dimenticate i fottuti denari, che il denaro non dà la
felicità. Al rogo! Presto! Un falò! Danzategli attorno scalze, macchiando di
polvere grigia le vostre piante sublimi come in un sabba infernale, che i noci
maturi ve li regalo io, streghe del sesso, creature divine.
Poi la walchiria si incanala alla cassa ed io, commosso e malinconico,
continuo il mio mesto dovere, planando a mia volta ad una cassa casuale,
incontrando lo sguardo lontano della Giuliana che stamani, vestita da
supermercato e svestita di sguardi maliardi, mi appare ancor più improbabile di
poche ore fa.
Ma bando alle tristezze, oggi è un giorno di festa!
Vorrei avere un servo per dirgli di ammazzare il vitello grasso e
imbandire il più suntuoso dei banchetti, perché si può fare, lei l’ha fatto, lo
farete tutte, prestissimo.
C’è speranza. Anche qui sul pianeta Pain.
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