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sabato 10 marzo 2012

Speranza


Mi interrogo su chi sia il pervertito depravato che ha introdotto sul mercato il kamut.
Il kamut. Ma chi cazzo lo ha mai sentito nominare, nei precedenti millenni, il kamut? I sumeri? Gli Ittiti? I Katzuti? Eppure la matrona vintage che mi stabula accanto, lungo la corsia della pasta, impartisce ordini alla figlia. Perentori ordini a fastidiosa voce alta.
“Prendi quella al kamut. Quella al kamut. Sai? Eleonora? Hai capito?” – “Sì mamma cazzo”.
Coraggio Eleonora, più tardi potrai drogarti, che è sabato, e di questa fazenda del kamut non ti rimarrà nulla.
Io, però, sono esterrefatto. Questo mammifero anziano, di grossa mole, si alimenta di kamut.
Ed è in tensione, perché se la giovane rampolla non procurerà la pasta al kamut, ella perirà.
Spirito di conservazione della specie.
Delle specie. Le specie di kamutivori.

Svolto la corsia, manca l’aceto.
Prima di giungere allo scaffale delle bottiglie di aceto bianco Ponti vengo assalito da un dubbio: mica esisterà l’aceto al kamut vero? No, per fortuna non esiste. Solo aceto di vino, di vinaccio vigliacco, ignorante, come piace a me.

Svolto corsia, manca il caffè solubile.
E lì il botto.
Poco più di trent’anni, fisico da pallavolista, altissima, la faccia da ragazza che ha studiato, il fisico della ragazza che fa sport, l’insieme che indica che fa un mestiere business, bella dietro quegli occhiali da intellettuale, raffinata anche se paludata da jogger del sabato che corre al supermercato a sbrigare in velocità la spesa, che per lei è una seccatura da maneggiare rapidi, mentre per il popolo è un rito. Una stangona con un bel culo generoso, fasciato dalle consunte braghine della tuta blu. Ma tutto questo non è niente. Perché ciò che è veramente, ciò che la pone nella storia del 2012, è che la walchiria indaffarata ed incurante, ai piedi calza un paio di Birkenstock infradito che le scoprono i grandi piedi nudi, affusolati ed elegantissimi. Unghie curate, niente smalto, chiare quasi come la bianchissima pelle.

Il primo paio di piedi scoperti del 2012! Ma vieni!

Il momento è epocale.
Sono emozionato come uno scolaretto, trascuro la mia spesa e prendo a transitarle pateticamente accanto con pretesti leciti, per quanto io non nutra alcun interesse per le cartine acchiappa colore, dato che vesto di nero e di jeans in maniera compulsiva, ma la lettura delle istruzioni rende ammissibile che io guardi in basso, ipnotizzato da quelle dita nude, da quell’alluce così bello, per il quale sogno sommessamente intimi utilizzi.
Piedi, mio dio, piedi nudi di donna, sono estasiato. State tornando quindi, piccoli amici e compagni di mille scappellate e ciò che si mormora è una realtà allora, e la walchiria è l’avamposto delle truppe scalze che saggia la sostenibilità del denudamento delle sessuali estremità e mi pare che regga alla grande.
Si-può-fare!
Signore tutte! Presto! Qui! Qui! Osservate la Regina 2012, la prima donna scalza dell’anno! Emulatela! Emulatela! Bruciate collant e stupide calze, a rete, di microfibra e dimenticate i fottuti denari, che il denaro non dà la felicità. Al rogo! Presto! Un falò! Danzategli attorno scalze, macchiando di polvere grigia le vostre piante sublimi come in un sabba infernale, che i noci maturi ve li regalo io, streghe del sesso, creature divine.

Poi la walchiria si incanala alla cassa ed io, commosso e malinconico, continuo il mio mesto dovere, planando a mia volta ad una cassa casuale, incontrando lo sguardo lontano della Giuliana che stamani, vestita da supermercato e svestita di sguardi maliardi, mi appare ancor più improbabile di poche ore fa.
Ma bando alle tristezze, oggi è un giorno di festa!
Vorrei avere un servo per dirgli di ammazzare il vitello grasso e imbandire il più suntuoso dei banchetti, perché si può fare, lei l’ha fatto, lo farete tutte, prestissimo.

C’è speranza. Anche qui sul pianeta Pain.

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