Gli suona il cellulare, mi pare educato alzarmi a sgranchirmi le gambe
e poi c’è la hostess da visionare.
La hostess.
Una scrofetta formosetta di ventidue o ventitre anni coi capelli biondo
peluche cinese, sfibrati, bianca come una cadaverina, qualche brufolino inutilmente
tumulato nel fondotinta, giacchino nero di velluto, gonnellina inguinale di
maglina grigia, culotto a palla da rugby, sessuale, da pecora, collant velati
tinta carne che fanno la gamba malata e sandali fottimifottimi a stringhe,
neri, altissimi.
Piedi normalissimi, unghie corte, niente smalti, rosa tatuata sopra la
caviglia sinistra, che con le calze della malattia sembra coperta di cipria.
Una bella troionetta, insomma. Ultrachiavabile, iperinculabile.
La guardo. Mi sorride.
“Una vera non se li sarebbe messi i collant” dico scortese e stronzo
come solo io so stupendamente essere.
“Eh lo so, ma si gela, fa meno quattro fuori” risponde giustificandosi.
Perché lo sa che doveva essere a gamba nuda per essere troia scaldacazzi
a dovere.
La consapevolezza è tutto, nella vita. Brava, troia.
“Peccato” aggiungo io annoiato “hai dei piedi sexy, mi piacciono.”
Sorride maiala, che lo sa che i piedi fanno tirare il cazzo ai buongustai e dice “Grazie”
Sorride maiala, che lo sa che i piedi fanno tirare il cazzo ai buongustai e dice “Grazie”
Poi quello termina la telefonata e mi riagguanta nel business.
Se niente niente avevo dieci minuti in più, stasera avrei indossato la
sua passera.
Ma non mi lamento, no.
Una troia da indossare la trovo anche qui, stasera.
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