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venerdì 24 febbraio 2012

Strass e paillettes


“Cosa bevi?” mi sento dire da dietro mentre siedo allo sgabello del bar osservando il gerontocomio ringalluzzito che si dimena nel pieno della tecnica sudamericana.
Gli abiti da ballo latino americano sono imbarazzanti, devo dirlo. Inserti di lycra color carne simulano parti di corpo scoperte che neanche a vent’anni te le permetteresti, poi triangoli di strass e paillettes, poi frange e spalline e disposizioni della stoffa che, se non ci fosse la base tinta carne, o le incolli col Bostik o la dama sarebbe nuda in due secondi.

“Un Jack Daniel’s liscio” rispondo osservandola con un sorriso, perché veramente stento a credere a quello che sto vedendo. L’acconciatura deve avergliela fatta il parrucchiere di bordo di Love Boat. Ma anche quella (e lo capisco guardandomi attorno) fa parte della mise della ballerina di latino americano. Tutto un lavoro di forcine e il fiore di seta color scarlatto come il vestito e il gel e tira su e metti giù.
Vinco la distrazione di questi duemila dettagli che urlano “GUARDAMI” e plano sui piedi, perché si sa, è lì dove voglio planare. E no che c’ha delle scarpette da ballo (non saprei descriverle con meno di 570.000 battute) da cui esce a malapena l’unghia dell’alluce avvolta in quei terribili collant di microfibra color carne.
Delusione.

“C’eri mai stato qua?” mi chiede sensualona e le rispondo di sì, che c’ero stato, ma nel paleolitico, quando c’aveva un altro nome. E lei mi guarda e mi dice “Odissea” anche se la pronuncia era più tipo “OdiSCea” e l’espressione comprendeva una stretta degli occhi come si parlasse di qualcosa di peccaminoso e uno spostamento del mento in fuori sulla pronuncia della ‘sc’ di Odiscea. Un po’ groarrr diciamo.

Sosteniamo un abbozzo di conversazione piuttosto sofferente. Io che cazzo c’ho da dire alla Giuliana, diciamocelo. C’ho da dirle che vorrei darle il cazzo, ma mi sembrava onestamente un tantino affrettato. E forse, invece, lei se lo aspettava e avrà detto “Ma tu guarda ‘sto salame che non passa ai fatti”. Non so, certe volte mi sento un matusa.

“Cosa balli te?” mi chiede a un certo punto della sofferenza.
“I lenti delle festine” rispondo io che non c’avevo certo cazzi di ballare. Lei ride e incomincia a elencarmi settemila balli e discipline a cui io devo rispondere regolarmente di no e lei deve deprecare la mia lacuna.
“E va beh. Allora andiamo a ballare ‘sti balli delle festine” e ride e mi prende per mano e mi trascina giù per le scale dove c’è il reparto revival. Suddiviso in due ambulatori: il revival disco club anni ’70 – ’80 e l’ambulatorio ballo lento anni ’70 – ’80. E io che credevo di essermela cavata.

Che momento meraviglioso. Sapete quando avviene quel fenomeno di visione extracorporea in cui tu ti vedi da fuori e ti commenti? E senti la voce fuori campo che ti doppia e che sei tu che ti parli.
E ti rendi conto che hai passato i quarant’anni sei ancora lì che ravani come se fosse il primo giorno di lavoro e stai ballando al Flamingo, ex Odiscea, con la cassiera del supermercato, signora Giuliana, ruspante cougar seSuale quarantasettenne sposata, che pianta a casa il marito perché “è un morto”, si veste da Saturday Night Fever, acconciata da Love Boat e va a ballare il latino americano. La stringi nel ballo lento da festina e apprezzi tutta la dotazione di sensualissima adipe femmina e senti che ti sta tirando il cazzo che, si sa, vive di vita propria e non soccombe a nessuna tua decisione volontaria. La voce fuori campo chiede retorica se si può dire che la vita di Tazio abbia un senso e dopo un turno di Jimmy Jib che mi fa il piano alto e poi scende a fare un campo stretto sui nostri due volti vicini nel ballo, la sequenza si blocca e la voce fuori campo dice, perentoria, “No.”  e si va al nero. Titoli, fine.

“Mo lo sciai che scei praprio bello?” mi dice seSuale con un sorriso affilato.
“Anche tu Giuliana, davvero tanto” rispondo, assolutamente non in possesso della situazione.
“Ehhhhhhh adulatore, una volta magari” mi dice chiedendomi di insistere coi complimenti.
“Anche adesso, Giu-liana, credimi” le dico con la sensazione di terrore pari a quella che deve provare uno quando si stacca la carrozza dalle montagne russe.
“Ma va là, va là” insiste chiedendo la prosecuzione del mesto siparietto.
“Vuoi che ti dimostri che sono sincero?” dico farabutto.
“Sentiamo” mi dice sulle note di If you leave me now degli indimenticabili Chicago.
E allora la stringo. E lei, un tantino esterrefatta, ma piacevolmente esterrefatta, capisce che non mento.
Cioè, in realtà io mento, ma è talmente complicata la cosa che è pressoché impossibile da scoprire.
“Uhhh che caldo che m’è venuto tutto a un tratto” dice ridendo, ma senza distanziarsi di un millimetro, schiacciando la morbida pancia sulla mia durissima patta.

Festina, lento, erezione, pressione, parliamone.
O no Giuliana?

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