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mercoledì 9 novembre 2016

Modena

Via.
Deposito la mia esistenza, straziata e insulsa, come bagaglio a mano sulla via di Modena, come se fossi un colpevole che va dal giudice a ricevere la pena che gli spetta.
E così chiuderò tutto, niente deperibili nel frigo, staccherò l’acqua, la corrente, tutto.
Partirò a bordo della mia insignificante vettura e andrò a Modena a sentirmi dire il “no” che mi spetta, perché il tempo dei ricordi si fa nebbia e gli anni passano, passano per me, per lei, per tutti.
Un bel “no” sapientemente cesellato dalla sua parola cristallina, un pianto di sicuro, molti rimpianti, molte incertezze, ma ciò che va fatto va fatto e poi cosa resto qui a Taziopoli a fare?
Incarto il no, prendo questo ennesimo dolore che mi sono causato e poi via di nuovo.

Ma via, via.
Lascio Tazio a morire a Taziopoli, svesto la pelle che non è accettabile e me vado, via da questa, da quella, dal gommista, la farmacista, l’erbivendola, la tabaccaia e la macellaia.
Lascio tutto qui, tanto non ho niente e nessuno da salutare, a parte voi.
Ammesso che ci sia qualcuno di là.

Basta rimestare, sanare, terapia finita.
Non serve a un cazzo scrivere, quel che serve è essere diversi e diversi lo si è via.
Per cui eccomi, pronto, tranne qualche ultimo dettaglio, a veleggiare verso Modena come inizio della smolecolarizzazione, dell’assenza, dell’oblio.

Tutto qua.

lunedì 7 novembre 2016

Non resta che la fuga

Blocca, blocca, blocca, blocca, quasi mezza rubrica è bloccata per far tenere gli argini di un’alluvione di merda che presto mi travolgerà, soffocandomi nel rimorso dei dolori strambamente arrecati, piegandomi nella consapevolezza di un’esistenza personale inadeguata ai canoni comuni, spingendomi alla periferia della mia piccola comunità ruspante, laddove cresce il vociare pernicioso su di me: drogato, puttaniere, ladro, farabutto, malvivente, seduttore di appena maggiorenni, maniaco sessuale, ingrato pezzo dimmerda, traditore di amici, frequentatore di sodomite, sodomita a mia volta, sia nella versione dante che ricevente, in un quadro ossianico di turbe psichiche gravi, predisposizione innata a delinquere, alla blasfemia, all’eresia, persino all’eresia gnostica di Celestino, vampiro, porfirista messicano amico personale di Diaz.

Donne assatanate mi attendono alla porta di casa nel cuore della notte, impedendomi di rientrare e imponendomi notti forestiere in alberghi limitrofi, segni approfonditi di chiave ornano le fiancate delle mia vettura di basso impatto ambientale, mezza elettrica e mezza non, con cui in tempi andati viaggiavo per le vie del comune che mi accoglie e mi accetta, ma solo sulla carta, perché poi negli effetti mi accetterebbe con la menarina.

E allora via, cazzo, mi dico senza pena, cominciando ad affastellare i miei panni sul letto non utilizzato, sognando località erotiche in cui le femmine per pochi danari mi daranno abbronzatissimi culi a cui cancellare l’ano a sapienti pennellate di lingua, via, via, via, via, Brasile, Argentina, dove fa caldo, dove non mi si conosce, via, via, via, Brasile, sì, Rio de Culheiro, quando tuttutuntratto squilla la messaggistica classica del parlafono e, tra insulti e bestemmie, lampeggia un messaggio umano che dice: “Ma te uazzap picche adesso? Ti ho scritto una sett fa e nn mi hai risposto”.

La Chiara.
Sblocco, controllo, cerco, guardo, sorvolo e finalmente ecco.
“Credo sia tardi, in tt i sensi, ma come mai ti ha preso sto pivone?”

Già, come mai, che va tutto a gonfie vele?
Come mai?

lunedì 24 ottobre 2016

Manifesto della Maiala - appunti di filosofia srtrapazzata del cazzo

Rinnovare, rivalorizzare, porre sensi relativi in cui l’espressione vocata diviene massima e sublime ricerca della perfezione assoluta, cartesiana, oggettiva, ed è interessante come l’oggettività inserita nel relativismo divenga persino arte e, se un coglione semi analfabeta e sottoculturato come Bob Dylan accede al Nobel, il dolente, ma aperto, buco del culo della Siusy può meritare la copertina di Abitare, buio cunicolo dall’arrossata entrata, perfetta icona dell’architettura rupestre ora in crescente voga tra le persone scic e aptudeit.

Dekiergegaardizziamoci, come esortava Gadda, caliamoci nel piacere dell’esplorazione delle sozze viscere femminili, persino laggiù dove i miasmi possono raggiungere toni insopportabili, sopportiamoli come pegno dovuto al godere ed al piacere, sotterriamo gli imperativi assoluti, travolgiamo il pensiero kantiano e affondiamo la verga come fosse la spada dell’angelo dell’assoluto, riconoscenti ed in debito con colei che tanto gratuito godere ci concede, esaltiamola, non curiamoci di ciò che dice, ma veneriamo ciò che ci concede, amica di pari attitudini compresa, aggrovigliamoci, estendiamoci, purifichiamoci sfregando il glande ipertrofizzato contro le carni molli e odorose delle Muse del Sozzo, Sozzo che non deve depurarsi e divenire candore, ma deve essere isolato e ostentato come un diadema raro, raro come la Vocazione al Puttanesimo che rende la Virtù frigida essenza dei non talentuosi, che annullano e parificano minimizzando i massimi ed esaltando l’astensione ed il premio dell’aldilà, pur di non cimentarsi e confrontarsi col virtuosismo del talento vaginale che porta il premio in terra, tra le cosce di una Sunzona arrapata che dona l’assenza della coscienza meglio di una droga, droga che, peraltro, lei consuma a volontà ed a rischio.

Ancelle del Sozzo, Vestali della Sunzonia, dee immortali che tramandate il vostro verbo affascinando nuove adepte pronte ad immolare un’anonima fica privata al pubblico che, per più versi d’osservazione, ne gode decantandone doti di piacere assoluto, Dee dell’Immortalità dell’uomo cosciente e consapevole, voi, voi dee meritate schizzi di succo d’uomo e venerazione incontrastata.

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«Puttana sacrata alla notte, notte tu stessa; in te il creatore risplende di luce propria. Puttana, sei la salvezza. Dixi et salvavi animam meam»

Italo Tavolato

La semplictà

Semplice, è così semplice, ma così semplice che talvolta mi sembra di rubare in chiesa. Compro mutande da Intimissimi, rigorosi boxer di maglina neri e, mentre spazio guardando i pigiami da uomo la incrocio che guarda pigiami da uomo. “Scusami, ma tu sei la proprietaria del Capitano Paff a Strazzabosco Valnuti Villa del Catenazzo, o mi sbaglio?” – “Non ti sbagli, ma ero proprietaria, ho venduto da un secolo, ma come fai a ricordarti di me???” stupore e emozione e sale la lusinga, cresce, ammanta, scalda, sveglia l’autostima con un “oh, sveglia, sono la Lusinga, ma puoi chiamarmi Lusi”, ed allora il Principe Suino affonda, sorride, finge imbarazzo, confessa antichi deboli, mormora sapidi ed educati corteggiamenti inequivocabili, tra mutande e fusò e la lusinga scioglie, fonde, liquefa e umetta labbra nascoste e tempo un’ora e tredici minuti (sottolineo il timing), scopro finalmente, dopo anni di arrovellamento, la geometria del vello pubico della tenera Arianna MILF benissimo mantenutissima, dolente prigioniera del labirinto del matrimonio che la spinge negli inferi della noncuranza, scopro la dolce morbidezza delle sue non perfette dita dei piedi, ma l’estetica scompare di fronte all’intimità proibita e mollemente concessa e godo con lei orgasmi intensi e profumati di deodoranti ascellari all’Alohe Vera e creme da corpo da banco della parafarmacia.

Tradire per riscattarsi, in un lampo, veloce cedimento infatuato di un “io” vessato e compresso e l’urlo della rivoluzione chiama la fica sulle barricate, spogliandola dell’abito di premio assoluto per colui che manco la caga di striscio e la fica bellicosa si veste da spada di battaglia che ferisce ammiccante  per essere ancor ricordata come la fica della proprietaria del Capitano Paff di Strazzabosco Valnuti Villa del Catenazzo, non consapevole che io, porco di razza di consumati razzolamenti sozzi, dopo questa gradita ficcata forestiera la ristabilirò giù, laggiù dove lo sposo la conserva, nell’oblio del nulla, fedifraga e annullata, sporca di una macchia che renderà moralmente insostenibile salire sulle barricate domestiche per una riaffermazione e, mentre io torno a casa coi miei morbidi boxer di maglina, fresco di una doccia consumata in un alberghetto da troie nascosto in città, lei si scioglierà nei vapori della memoria, come succede in questi casi.

Semplice, anche troppo semplice.
Tazio Bastardo Superstar.

Abrasioni

E questo soffitto viola esiste eccome, i muri stanno lì, la stanza ha confini, gli alberi sono finiti e no, l’amore tuo non può disperdersi nel vento con le rose? Ma anche perché non è maggio e sì ‘stu core torn ‘a maggio chissà a maggio dov’io sarò e mia Mia no, no, no, lacrime amare, ricordi una notte di ottobre, noi soli e puri? un capolavoro, ma poi quante volte hai cercato di entrare nel mio presente e io non posso, no, non posso, occuparmi di adolescenziali drammi consumati un po’ tra le cosce di mamma (che vorrò conoscere, per alcuni dettagli svelati che vi dirò) un po’ tra i diari delle amiche e le mestruazioni dolorose e no, Mia, no, non ce la fo, adiò (per la rima).

Abrasioni azzeccate.

venerdì 14 ottobre 2016

Venerdì

E oggi si festeggia il settimavversario, gli otto giorni, faremo un piccolo party in cui ci scambieremo i peluche e i bigliettoni con sopra i cuoricini e i pensierini che finiscono coi tre puntini che odio e poi balleremo il tempo delle mele e poi, finalmente, diventeremo animali e finiremo a letto a consumare sino a domattina questa importantissima data che, volenti o nolenti, è il preambolo ad una vita fatta di bambini, cane e barbecue.

Scherzo, sono il solito cinicosarcasticobastardo, in realtà Mia è una ragazza molto in gamba, gioiosa, sorridente, pulita, pensate che con lei è una settimana che ficco come un montone e mi sono tenuto per me tutti i pensieri impuri che faccio su di lei, non parlo, non dico, non sbarello, non confesso, non dichiaro, ma non per questo non godo di piaceri oscuri e adulti, come l’averle annusato i piedi la settimana scorsa, dopo un trattamento-ballerine-senza-calze, godendo come un porco, ma senza una sillaba, senza rivelare, senza estremizzare, pazientando, meditando, con la convinzione marmorea che di lei potrei fare ciò che voglio e forse lo farò, ma solo dopo una sua sfumatura che segni una disponibilità a bagnarsi nelle acque dello Stige (chissà la Ade che fine ha fatto).

Spalanca ginnica le gambe a V, tenendosi le caviglie, i piedi arcuati che increspano di pieghe le piante ruvide e callose, passo oltre le gambe con le braccia, le cingo i fianchi e le entro dentro con garbo e cura, raggiungendo quel punto in cui un lamento mi consiglia di non spingere oltre e dimentico quell’ano che si foggia ad ovale, schiudendosi appena tra le pliche pulsanti, lo dimentico poiché non ho maturato nessun percorso, nessuna scuola, nessuna strada, se non quella di farla venire e venire e venire e venire sinché un ‘basta’, disperato e sorridente, mi chiede una tregua che in altre condizioni non concederei.

Sulla strada della palestra si ricava un’ora mattutina per portarmi le briochine calde e abbassarsi i pantaloni della tuta affinché il Colosso di Roditazio possa infiltrarsi subdolo nella prugna matura che rompe la buccia e gocciola zuccherosa e ghiotta melata e poi prende la bici e va ad insegnare alle bambine ad essere graziose come lei e questo pensiero, non so perché, è un raggio di sole nella mia turpe esistenza.

Questa notte dormirà qui e poi sabato rientrerà ad aiutare la mamma e poi alle quattro sarà nuovamente qui per passare il sabato notte con me e poi la domenica rientrerà e poi mi raggiungerà dopo pranzo e staremo assieme a letto, nella pioggia (si spera) che sferza le tegole e sento l’esigenza di prendere in mano i libri di greco e latino per respirare ad ancor più pieni polmoni quel profumo di liceo che ho seppellito nella notte dei tempi e dei templi.

Sono molto sereno.
Se solo riuscissi a mettere le mani su quel Cascella che ho promesso al Bergolettone.
Ma sono dettagli.

Tutti dettagli.

martedì 11 ottobre 2016

Venerdì 7 ottobre [Parte terza]: La conquista

Che clima fashion e stylish con le luci morbide, il divindivano on duty, la Bossa Nova, il Jack Daniels Single Barrel e una cannuccia di Maria Giovanna che gira leggera librandosi nell’aere perso tra una bocca e l’altra a suggello di un rito di ancestrale memoria che precede, come inevitabile conseguenza, l’accoppiamento tra il maschio adulto e la giovane femmina della stessa razza suina.
E si fa clima di confessioni, come da copione rispolverato e riletto con occhi che lo trovano piacevolmente sempre nuovo.

Scorrono placide le sue rimembranze addolorate sul moroso andato su Giove, che già si assettava al desco familiare, ma nonostante ciò non ha saputo far aderire le ancore al fondo. E tu Tazio? E io Tazio, tu Mia, continua a raccontare che dopo ti dico una cosa, no dimmi, ok, ti dico, ma tu lo sai cosa si dice di me in giro?, chiedo un po’ orgoglione della sicura fama dimmerda che mi precede e lei si stende sparpagliando la chioma corvina e sorride mormorando “Ti riferisci a: pazzo, drogato, puttaniere, sciupafemmine, maniaco sessuale, violento e trafficante di droga nei paesi dell’est?” e la cosa mi inorgoglisce, tante sfumature non le immaginavo, ma non posso che confermare con malcelata soddisfazione e chiedere “E come mai una Mia perbene non scappa di fronte a cotanto mostro?” e lei si leva, mi abbraccia e mi slinguazza e poi sussurra “Non me ne frega un cazzo delle chiacchiere, tu mi piaci da quando avevo dodici anni”.

Sette anni in Tibet senza il Taziot, porella, che sofferenza. Come rimanere insensibili?

Come rimanere insensibili dietro a una gazzella che, una volta nuda e in piedi, ha un culino talmente da modella di Petter Hegre che le si vede il buchino biscottino irraggiato come un sole naif, senza che nemmeno si chini di un grado?

Come rimanere insensibili alle sue tettine acerbe tempestate di sensuali nei, su cui sono incastonati morbidissimi capezzoli chiari e conici che si increspano per sbucare tubetti di carne incisi da un tenero forellino?

Come rimanere insensibili davanti alla passerina rasata a zero per motivi di ginnastica artistica, che immagino davvero artistica, con quello zoccoletto di cammello che ingoia il costumino al saggio a cui vecchi bavosi prendono visione con rinnovati turgori nel pantalone agè.

Come rimanere insensibili alla piccola morte che la travolge nel momento in cui il Tarello Mastro Rampazzo ha pompato con delicatezza, garbo, dovizia e consunta esperienza e certezza della specialità della casa che questa sera propone cotechino di suino adulto stantuffato in salsa d’ostrica femmina praticamente nuova.

Come rimanere insensibili a carezze vere di felicità giovanile che vede il cielo in una stanza senza pareti che non esistono più, come per lei tutto il Creato che la circonda, che vorrebbe piantare un chiodo nel quadrante dell’orologio per fermare il tempo della gioia immensa che io conosco, che ho conosciuto, che so che lei sta conoscendo, preparando così la slitta inesorabile verso il baratro della delusione, nella quale considererà nuovamente le chiacchiere che si dicono, confermando che si tratta di verità assolute, dandosi dell’idiota, diventando tristemente adulta e donna che porrà decaloghi di norme relative agli uomini di cui io avrò per sempre la faccia vigliacca dell’illusione della gioia immensa e del cielo in una stanza.

Come rimanere insensibili?

Venrdì 7 ottobre [Parte seconda]: L'assedio

“Senti, ma se ci fermassimo a mangiare qualcosa, che a stomaco ignudo ci siamo calati tre americani, che manca solo un francese, un tedesco e un italiano e Berlusconi che la sa l’ultima?”.
Si può fare, mi dice ridendo ‘mbriachella e semi stesa sul sedile nipponico, tant’è che mi fermo in una pizzeria del cazzo dal nome ignoto e ci accoccoliamo ad un tavolino da due dove ci portano tosti due belle birrazze medie che, si sa, ammazzano gli americani.
Mangiamo, ridiamo, mitraglio cazzate come un fedayn di ancestrale memoria e beviamo, beviamo e beviamo che ammazza quanto trangugia questa linguista certificata, senza fare una pence, dritta liscia come un rugbysta al terzo tempo, che mi fa venire in mente la Schiz nelle giornate auguste trascorse a Borgoverde, nei tempi dello sfarzo culeo imperiale che mai più tornerà.
 
Ma quanto ridere Tazio, era una vita che non ridevo così da quasi farmela addosso, che immagine frizzantina che mi strumpallazza la fava randazza rampolla, che con quei jeans l’idea…, ma no Tazio, no, Tazio nonononononono, Lino il gommista ti vulcanizza, radializza, ti rende tubeless, run on flat, ti svalvola e ti sbatte in strada, con o senza battistrada, ti cambia i bulbi oculari in termici e poi ti vende ai cinesi che ci fanno altri centomilamiliardi di chilometri con la pelle del tuo culo arrotolata a una camera d’aria ricavata col tuo intestino tenue. Tazio no.

“Senti, Mia, io adesso la metto lì e poi tu eventualmente la sposti, o la butti, ma a ‘sta cazzo di festa del cazzo dobbiamo proprio veraveramente andarci o possiamo bigiare? Và che te la firmo io la giustifica eh. ” e lei ride con gli occhi natalizi che c’hanno i riflessi dei manga e mi sussurra con un sorriso “Facciamo quello che vuoi tu, per me va benissimo” e allora dillo, Mia, che a te della frase “non indurlo in tentazione amen” non te ne può chiavare di meno, perché se facciamo quello che voglio io andiamo a casa mia e ci spalmiamo sul divindivano a rinverdirgli i fasti dell’impero culeo giovanile di cui sopra, senza garanzia alcuna di contenimento del Taziosaurus Rex che sento grugnire laggiù nella grotta.

“Ti piace la bossanova jazz?” – “Mai ascoltata.” – “E’ arrivato il momento che tu sappia, Mia. Andiamo a casa mia che te la imparo.”
E ride.
E si va.
 
Già.

Venerdì 7 ottobre [Parte prima]: Il fato

E allora son lì che chiudo il cancello, mi avvio nella piazza, controllo se ho tutto, due passi pre cena, venerdì di promesse e poi si avvicina quella ragazzina coi capelli neri lunghissimi, il viso magro un po’ equino, sorride e mi dice “ciao, ti ricordi di me? Sono la Mia, la figlia di Lino il gommista” e io la guardo mentre l’amica ghigna malferma, sperando che tutto le crolli, ma poi io temporeggio, che ho fatto la scuola Stanislavskij, sgombro le nebbie, focalizzo il gommista e mi viene in mente una ragnetta antipatica, smilza e alta, con gli occhi da Misery devi morire abbestia, certo, ma è lei, sei tu, ma cazzo, sei cresciuta di botto, per dio e per tutti i fulmini e si sorride a illuminazione da stadio, mentre la cicciotta vede sfumata la chance di sfanculare l’amica, ma come stai, cosa fai, presentami la cessa della tua amica, sì dai che devo andare, muggisce il bovide, oh che disperazione, ciao amica di merda, oh ma senti Mia, e se andassimo a prendere qualcosa che mi ragguagli sull’ultimo secolo e ridi ridi, ma certo, ma andiamo…, vediamo, vediamo, vediamo, ideona!, andiamo al Centrale?

E siede accavallando elegante le gambe nei jeans e la pelle e cristoddio allora dillo, le ballerine nere senza calze e sopra un felpone blu con sotto non si capisce cosa e armeggia coi capelli sguainandoli ora a destra, ora a manca, ma cosa fai dibbello, le chiedo escludendo che faccia la gommista, ma ho appena finito il linguistico (ma che bel liceazzo rampazzo) e adesso non so, penso che per un anno provo a guardarmi attorno e poi al limite mi iscrivo a lingue orientali, le migliori, chioso con serietà improbabile, ma senti, ma allora tu quantannicciai adesso?, diciannove, faccio i venti a marzo.

Diciannove.
Santa Madre Teresa di Gallura, Tazio, ha diciannove anni, spegni quel porno che hai in testa che arrivano i gendarmi con i pennacchi e con le armi, ma poi si sa, i porno li si devono guardare fino alla fine che altrimenti non capisci un cazzo di chi era l’assassino e allora dai, altri due americani, e tu che fai di bello Tazio?, ma ho appena finito di intonacare il linguistico e adesso non so, penso che per un anno provo a girarmi dattorno e poi al limite scrivo sui muri di lingue orientali che magari l’anno prossimo me li fanno intonacare e si ride, ma lei ride di cuore, mi piace.

Bella non è bella, ma è di quel bruttino che a me mi mette il Tabasco sulla cappella, perché il culino è un capolavorino, col jeans ficcatissimo inside da perizoma odoroso, la figura è asciutta, slanciata, elegante, anche come cammina per andare a far la pipì e poi è senza calze vivagesùnomineddio.
Poi torna, deorinata con sperpero, col viso scuro, il telefonino in mano: l’amica l’ha orrendamente tradita per andare a una festa sulla via Emilia con quel tizio e lei, che la macchina non ce l’ha, non può andarci, ma manco ci andrebbe, perché erano d’accordo cazzo e quella è una stronza, stronza, stronza, magari è invidiosa, allungo io un fendente da squalifica, che sottolinea che lei, la Mia, è più figa e i fatti la cosano al punto che siede al mitico Centrale con un maschio adulto in età copulatoria di sublime bellezza, che sono io.

“Oh ti ci porto io alla festa, cazzo” dico con l’aria di NumboCchi che risolve i problemi e lei sorride dicendomi che son tanto gentile, ma poi penso che magari con un vecchione come me non ha nessuna intenzione di farsi vedere e lei fa gli occhi di Misery deve essere cremata viva e mi incentiva con un semiserio “Che stronzo” che assumo essere un complimento cciovane e allora, mi dice, sai che si fa? No rispondo e lei “due americani” che fan tre a testa e poi è deciso: si va assieme alla festa degli stronzi sulla via Eustronzia a fare stronzare di stronzaggine quella stronza della sua amica Stronza.

Diciannove.
Chemmerda che sono.

mercoledì 5 ottobre 2016

Casa mia casa mia


Che poi, ok, ‘ste estiche c’hanno una fisicata che neanche la Barbie e un senso del pudore che nemmeno la mia tavoletta del cesso, va bene che ti incensano e idolatrano (ma d’altra parte gli paghi una camera come fosse un mutuo trentennale al 17% non negoziabile sulla Reggia di Caserta) va bene che si strafanno come le scimmie e tu ti diverti, ma tutto per un po’però, perché di inspiedare delle pollastre che fanno coccodè in una lingua che non cazzo conosci, dopo un pochettino ti cazzo fratturi il coglione, cazzo.

A Riga tutto bene, prendiamo anche il negozio accanto che chiude e allarghiamo la parte mono-autoriale che ne avevamo il di bisogno, ora che alcuni artisti russi ci adocchiano, l’albergo è sempre una magia spaziale del 1800, il Bergolettone sempre più un amico e la città sempre un mistero attraente. Lo chiamo Bergolettone perché Lettamasco mi pare brutto.

Ma poi torno al pollaio e la prima mattina che mi sveglio trovo la Nevenka al pezzo, ferro da stiro al calor bianco, caldaia che sbuffa come una kriegslokomotive BR 52 di uncinata memoria, toppino nero da banchetto di Rumènia, con reggiseno a fascione bianco ingrigito di cui si intravede un arruffato bordo, fuzò grigi di maglina effetto guardachemutandazzabiancachec’hoattornoallacellulitechemimascherailculo, ciabattazza da piscina blu con righe bianche, smalto rosa-perla-ammalata-di-tisi, tutta bella lucida di sudore sotto le clavicole ignude, che sbuffa dicendo, squillante come una chiarina di Raffaello Sanzio “Madù Tazio che caldu che fa ancora, ma inverno non venire mai? Io schioppo stirare cosgì sai?” che mi fa mixare lentamente la Repubblica Ceca e la Lettonia con un pizzico di Moldavia che, alla fine, sembra di stare in piazza a Sant’Agostino alla sagra del gnocco fritto, se solo ci fosse del peperoncino di Soverato.

Ma poi torno, dicevo, e la guardo e sento che qualcosa, qualcuno, qualchè mi suggerisce che saltarle addosso e ingropparla alla strazzona, affondando la minchia in quel cuscino di pelo compresso che sicuramente avrà nella mutandazza sanitaria, mi impirilla non poco.
E allora mi doccio e sego, con lei di là.

Perché un uomo nella vita deve decidere se una monta randazza della moldava porcazza, monta che al 99,9% riesce per un ventaglio di motivi vastissimo, vale il disagio di perdere poi l’operatrice di caldaia e di mille altre fazende e, amisgi no, nononononono, per cui sega selvaggia e morta lì.

Altri fatti di spessore come quelli sin qui citati?
Fatemi pensare.

Ah sì! A Riga, in un momento di depressione che manco i Lemmings, ho uazzappato alla Squinzy un messaggio che faceva più o meno così, aspettate che prendo la chitarra.
Do7: “Ci sono momenti in cui mi rendo conto del baratro che ho dentro e che sono riuscito a dimenticare solo quando c’eri tu e mai più. Mi vergogno a pensare ai baratri che avrò lasciato in te e del fastidio che sicuramente questo messaggio ti darà, ma la realtà è che mi manchi.
Insomma c’erano dei baratri qui e lì, una pennellata sulla fugacità della vita e uno stridor di denti dal rimorso e così e colà.
Risposte: zero.
Strano.

Insomma amisgi che numerossi mi seguita da cassa, credo che la vita vera sia anche non mancare mai l’occasione di apparire uno sterminato coglione, che i treni della coglionaggine è pur vero che passano ogni quattordici minuti, ma è anche vero che le carrozze di prima sono sempre piene.
Piene, come la madre del coglione.
Che anche lei viaggia in prima.